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Perché gli Usa possono salvare l’Ilva. Lo spiega Crolla (AmCham)

In questo periodo si è riaffacciato con forza nel dibattito pubblico il tema degli investimenti, sia per la crisi dell’Ilva – che si aggiunge ai quasi 150 tavoli di crisi aperti – sia per la mancanza all’interno della legge di bilancio in discussione di una strategia su questo argomento.

In relazione, invece, agli investimenti esteri e al rapporto tra Italia e Stati Uniti è stato lo European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall, a favorire la ricostruzione industriale italiana nel dopoguerra. Questo progetto consisté in un piano di investimenti da 1,2 miliardi di dollari in Italia, che pose le basi per il rilancio produttivo e il successivo boom economico italiano, permettendo, tra le altre cose, la ristrutturazione e il rilancio della siderurgia italiana tramite l’Ilva, società allora facente parte del Gruppo Iri.

Oggi, purtroppo, l’Italia non è più al centro del radar degli investitori americani. Gli Investimenti Diretti Esteri (Ide) provenienti dagli Usa si attestano a 39 miliardi di dollari, pochi se comparati agli 87 miliardi di dollari della Francia e ai 140 miliardi di dollari della Germania. Ma è sorprendente la crescita di Ide italiani verso gli USA, passati da 6,9 miliardi di dollari nel 2003 a oltre 31 miliardi di dollari (+350%), segno di un’internalizzazione di successo da parte delle nostre migliori imprese.

Quale lezione possiamo apprendere da questi dati? Gli Ide sono fondamentali per la crescita di un Paese: la Conferenza delle Nazioni Unite per la Crescita e lo Sviluppo (Unctad) ha stimato nel 2017 il flusso globale di Ide in circa 1.430 miliardi di dollari e gli Stati in grado di intercettarne la maggioranza hanno registrato tassi di crescita più elevati.

Gli Ide permettono al Paese destinatario di specializzarsi ulteriormente nei settori in cui ha un vantaggio competitivo, rappresentando un’opportunità di industrializzazione e crescita economica sia per il Paese investitore sia per quello destinatario. Le ragioni per considerare strategiche le grandi imprese estere sono molteplici: hanno una maggiore dimensione rispetto a quelle locali, rafforzano la capacità della nostra economia di affrontare le accresciute esigenze della competizione globale, generando effetti positivi su indotto, filiere e accesso ai mercati esteri, posizionando in cima alle catene del valore globali il nostro Paese.

E dove si colloca oggi l’Italia? Sicuramente non al livello della Germania, dove Elon Musk, scommettendo sul mercato europeo, ha scelto di aprire la quarta Gigafactory di Tesla. E nemmeno della Slovacchia, dove U.S. Steel (26° produttore al mondo di acciaio) aprì nel 2000 il primo stabilimento europeo a Kosice, che oggi garantisce lavoro a oltre 11.000 persone e che è stato ampliato ulteriormente nel 2019 con la realizzazione di una nuova linea produttiva mediante un investimento di 130 milioni di dollari.

Ritornando a ciò che accade all’Ilva oggi, servirebbe uno sforzo simile, se non più efficace, che vada nella stessa direzione di quello del 1947 e che favorisca un possibile investimento americano nell’azienda, analizzando i fattori di contesto politico, regolatorio e di business che hanno spinto una corporation americana a investire in un’acciaieria non molto lontana da noi.

In questa fase, come organizzazione che rappresenta gli investitori americani in Italia, chiediamo che il Governo metta in atto un piano nazionale per gli investimenti sulla base di una chiara strategia di politica industriale, lavori in sede europea affinché ricomincino le discussioni per arrivare a un Patto Transatlantico per la Crescita e l’Occupazione (Ttip 2.0) così da cogliere le opportunità di sviluppo presenti a livello globale.

Il legame transatlantico, mai da sottovalutare, è sempre stato prezioso e va coltivato giorno dopo giorno per studiare politiche di retention e di attrazione di nuovi Ide efficaci e condivise.


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