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La forza del petrolio lucano

Quando si immagina il Meridione spesso lo si ritiene una periferia che fatica a collegarsi al centro. Uno spazio desolato, ma attrattivo; senza memoria, ma ricco di storia; depresso economicamente, ma con infinite potenzialità di crescita. Insomma, una dicotomia in termini geografici, antropologici, sociali. Se poi si guarda alla Basilicata la visione contraddittoria rafforza di estensione. Una regione debole dal punto di vista demografico, reddituale, politico. Quasi una provincia ai confini dell’impero. Eppure, questa piccola regione presenta realtà culturali e luoghi turistici famosi nel mondo; mantiene insediamenti produttivi di tutto rilievo nell’ambito dei settori dell’automotive e dell’agroalimentare; in talune circostanze ha costituito lo spazio creativo per intellettuali come Carlo Levi fino a Mariolina Venezia; qui sono nati politici come Giustino Fortunato ed Emilio Colombo. Ma in Basilicata si trova il petrolio.

Una realtà geopolitica

Il settore estrattivo della Val d’Agri, dove a Viggiano c’è l’Eni, e quello del Sauro, dove a Corleto Perticara c’è la Total, garantiscono di fatto il 60 per cento del “greggio” nazionale. Un dato che esprime la centralità di questa periferia in termini geopolitici determinanti per logiche connessioni tra potere, energia e democrazia. Da qui l’interesse strategico nazionale in termini di politica energetica che deve costantemente interagire col territorio regionale e con le istituzioni locali. Le relazioni tra il centro e questa periferia hanno alti e bassi, perché la stessa questione energetica nel Paese non risulta tuttora definita compiutamente. Nel senso che le scelte politiche da farsi sulla transizione energetica in Italia sono talvolta un libro dei sogni che mal si concilia con le esigenze concrete dell’Italia in crisi.

La situazione normativa

Eppure dopo il referendum sulle trivellazioni del 17 aprile del 2015, che ha prodotto un risultato non valido dal punto di vista giuridico, qualcosa si è bloccato lo stesso in ambito regionale, nonostante che ci fosse la sacrosanta necessità almeno di sfruttare i giacimenti esistenti per risparmiare l’energia che serve all’interno del perimetro nazionale. Tradotto: no all’autorizzazione di nuove ricerche e nuove estrazioni di gas e petrolio.

E in effetti la Legge numero 12 dell’11 febbraio 2019 ha previsto che i permessi di ricerca già vigenti e i procedimenti amministrativi (compresi quelli di valutazione ed impatto ambientale) già avviati e relativi al conferimento di nuovi permessi di ricerca siano sospesi per 18 mesi. Potranno tornare ad avere efficacia solo se saranno compatibili con le previsioni del “Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee” che tuttora deve essere adottato. Una circostanza che dimostra l’andamento lento nel settore energetico e quali siano i diversi interessi in gioco. È bene far presente che le norme della legge succitata hanno provato a bloccare ogni autorizzazione per attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in mare ed in terraferma in attesa di approvare il Piano delle aree. Dal limite imposto si è salvata l’Eni per l’estrazione di Viggiano la cui concessione scade a fine di quest’anno, perché la norma specifica non riguarda le richieste di proroga già avanzate alla data della legge. Infine, i provvedimenti in questione hanno introdotto anche l’aumento dei canoni di concessione per l’attività di coltivazione di idrocarburi. Si tratta di poste necessarie per costituire una riserva finanziaria allo Stato in caso di contenziosi con società private del settore. Una società che si chiama Global Med, per esempio, con sede nello stato americano del Colorado, ha ricevuto dal dicastero dello Sviluppo economico il 7 dicembre 2018 tre permessi di ricerca nel mar Ionio. Il 14 dicembre, solo una settimana dopo, il governo ha varato il decreto restrittivo, convertito nella Legge 12 febbraio 2019. Proprio questa società potrebbe avanzare un contenzioso con lo Stato su un presupposto di incostituzionalità.

La prospettiva centrale

Infine, bisogna considerare le risorse che vengono attribuite alla Basilicata per effetto dell’attività estrattiva, le cosiddette “royalties”. Si tratta di una media annua di circa 140 milioni di euro. Al momento ai territori in cui si verifica l’attività estrattiva (come in Val d’Agri, Melandro, Sauro, Camastra e altri) saranno riconosciute gran parte di queste risorse, mentre le rimanenti andranno alla Regione affinché sviluppi idonee politiche di coesione e di crescita. In questo senso occorre investire sulla transizione energetica per far crescere le imprese e favorire occasioni di lavoro. E poi, bisogna investire sulla sostenibilità ambientale, attraverso uno sforzo sinergico di istituzioni, imprese e parti sociali rivolto alle “Best Available Techniques”, un insieme di buone pratiche, in materia estrattiva. La Uil regionale ha proposto ripetutamente l’istituzione di un fondo sovrano per la gestione delle “royalties” percepite dalla Basilicata, una scelta come investimento dei capitali fisso, umano e sociale, oltre che un modo per recuperare centralità a livello istituzionale e in ambito territoriale. La dorsale appenninica separa il corridoio tirrenico da quello Adriatico e la piccola regione viene a trovarsi in mezzo ad un guado senza infrastrutture per uscirne. Se la Basilicata riuscirà a trovare il baricentro tra il Nord ed il Sud il Meridione sarà sempre più uno spazio accessibile e sostenibile. Anche grazie al petrolio questo posizionamento che sa di futuro è possibile.


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