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Politica, finanza, istituzioni. Chi avrà l’ultima parola su Pop Bari

Chi di banca ferisce, di sportello perisce: verrebbe da dire riferendoci al caso della Popolare di Bari, la più grande banca del Mezzogiorno, commissariata all’improvviso dalla Banca d’Italia, oggetto di una tempestosa riunione del Consiglio dei ministri, convocato per approvare un decreto di salvataggio. Poi conclusasi con un nulla di fatto e polemiche a non finire, tra le diverse componenti della compagine governativa. Rassicuranti, come al solito, le successive dichiarazioni del Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, impossibilitato a partecipare per il vertice di Bruxelles. Che poi, nel day after, durante l’illustrazione dell’attività svolta nei primi 100 giorni dell’attività di governo, torna sull’argomento per confessare: “Ieri a Bruxelles non potevo anticipare alle telecamere quello che stava succedendo. Chiedo scusa ai cittadini, sono stato omissivo per la prima volta ma non potevo parlare a mercati aperti”.

Sarà anche così. Resta, tuttavia, il fatto che il Consiglio dei ministri era stato convocato alle ore 21. E per quell’ora i mercati erano chiusi da tempo. Imbarazzo evidente, quindi. Che lascia intravedere quanto la situazione sia complessa e ingarbugliata. Lo è innanzitutto sul piano politico. Come si ricorderà, sul problema della mala gestio di alcuni piccoli istituti di credito – dalla Banca Etruria alla Banca Marche – i 5 stelle avevano costruito una parte notevole del loro successo politico. Matteo Renzi era stato più volte accusato di collusione con gli odiati “banchieri”. Nemici del popolo e impenitenti profittatori. Maria Elena Boschi, esponente di primo piano del “Giglio magico”, partecipe del grande complotto per salvare il padre: membro autorevole della Banca Etruria.

Oggi la patata bollente, rappresentata dalla crisi che, da tempo, ha colpito la Popolare di Bari rivolta la frittata. Quasi una legge del contrappasso. Una mina che Luigi Di Maio cerca, subito di neutralizzare, nell’affermazione: “Salviamo i risparmiatori, ma non i banchieri”. Cosa più semplice a dirsi che a realizzare. Mentre Matteo Renzi, per altro sotto attacco per le vicende della sua fondazione, non vede l’ora di rendere pan per focaccia. Facendo valere tutto il peso di essere l’ago della bilancia di una maggioranza, già alle prese con fenomeni di defezioni. Se non di vere e proprie diserzioni. Resta solo il Pd, con quella sua sorte di vocazione al martirio, nel tentativo di salvare il salvabile. Almeno fin quando gli sarà possibile.

Questo quindi il quadro politico. Che più confuso non si può. Resta da valutare il ruolo di altri autorevoli protagonisti. A partire dalla Vigilanza della Banca d’Italia. Il commissariamento improvviso della Banca, a molti, è apparso come un fulmine a ciel sereno. Che la crisi fosse nell’aria era evidente da tempo. Che il tutto potesse essere preparato con i tempi più giusti, forse. Anche se era comprensibile la fretta, tesa a scongiurare possibili fughe dei depositanti. Si vedrà lunedì. Ma certo è che la rassicurante nota dei nuovi commissari, appena nominati da Bankitalia (“la banca prosegue regolarmente l’attività … la clientela può continuare ad operare con la consueta fiducia”) più che tranquillizzare, fa pensare al vecchio proclama di Badoglio: “La guerra continua”.

Sullo sfondo resta, comunque, la crisi della Banca. Ed il ripetersi di un fenomeno, al di là delle eventuali responsabilità dei singoli amministratori, che ogni volta si rinnova. Lo si è visto per gli Istituti di credito indicati in precedenza. Si è manifestato nuovamente per Banca Carige, per fortuna in fase di superamento. Almeno a quanto sembra. Traspare ancora una volta quale riflesso della crisi produttiva, tutt’altro che risolta, che ha investito l’intero Mezzogiorno. E che rischia di aggravarsi ulteriormente a seguito della vicenda Ilva. Se il tessuto produttivo, che fa da mercato al singolo istituto di credito, non è più in grado di assolvere alle sue tradizionali funzioni, la prima vittima del conseguente stato di dissesto è la banca stessa. I crediti vantati vanno in sofferenza. Le perdite riducono il suo patrimonio, al di sotto degli standard voluti dalle regole di Basilea. Nasce quindi l’esigenza di una sua ricapitalizzazione.

Uno schema tipico che, ancora una volta, si rinnova. Secondo l’ultima semestrale della Popolare di Bari, il rapporto tra crediti deteriorati e impieghi aveva raggiunto una percentuale pari al 15,5%. Il Tier 1 (patrimonio di garanzia) era sceso al 6,22% ed il cost-income (rapporto tra i costi operativi e il margine di intermediazione) al 108,1%. Uno dei valori più alti tra le banche italiane. Mentre i non performing loans valevano 1,22 miliardi di euro su un’esposizione complessiva pari ad 8 miliardi. La radiografia del dissesto annunciato. Dopo di che, c’erano le stranezze, relative alla governance. Il rifiuto di trasformarsi in SpA – unico insieme alla Popolare di Sondrio – nonostante la riforma voluta da Renzi. Quindi una saga familiare a dir poco sconcertante.

L’Istituto era stato fondato da Luigi Jacobini nel 1960. Nel 1989, nemmeno si trattasse di un lascito dinastico, suo figlio Marco conservò, per quasi trent’anni la presidenza. Per poi cederla a suo nipote Gianvito Giannelli. Non che fossero mancati manager esterni, come Vincenzo De Bustis, ma evidentemente questi innesti non sono serviti per impedire operazioni anche pericolose, come l’acquisto della Tercas (Cassa di risparmio della provincia di Teramo) a sua volta, commissariata dalla Banca d’Italia nel 2012 e poi venduta nel 2014. Dopo essere stata salvata dall’intervento del Fitd (Fondo interbancario di tutela dei depositi). L’incorporazione definitiva nella Popolare di Bari avvenne nel 2016, dopo aver sborsato 230 milioni per la sottoscrizione dell’aumento di capitale per la preda appena conquistata.

E non è finita.  L’operazione non era piaciuta alla Commissione europea. Il Commissario alla concorrenza Margrethe Vestager aveva sentenziato che si trattava di aiuti di stato, avviando una procedura d’infrazione. Salvo poi essere smentita dalla Corte di giustizia europea, che ne ha, invece, decretato la liceità. Nelle more della nuova sentenza, tuttavia, entravano in risoluzione le quattro banche dell’Italia centrale (Etruria, Marche Chieti e Ferrara) per le quali fu gioco forza applicare le regole del bail-in, salvo poi costringere il Governo a stabilire un apposito fondo (1 miliardo) per risarcire i risparmiatori. Sarà quindi interessante osservare, in questo gioco di specchi fatto di politica, finanza ed istituzioni, chi avrà l’ultima parola.

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