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C’è una nuova potenza nel Golfo: gli Emirati Arabi. Il report del CeSI

Non solo finanza, commercio e diplomazia, ma anche droni, elicotteri e missili. Gli Emirati Arabi Uniti sono diventati un interlocutore imprescindibile per chiunque voglia dire qualcosa nel Golfo Persico (fino al più ampio nord Africa e Medio Oriente) grazie agli enormi investimenti fatti nella Difesa, tanti da raggiungere nel giro di un decennio uno strumento militare moderno e flessibile, con impieghi che spaziano dallo Yemen alla Libia, fino a Sahel e Corno d’Africa. È quanto emerge dall’ultimo report del Centro studi internazionali (CeSI), a firma di Paolo Crippa e Melania Malomo, dedicato a “Lo sviluppo delle capacità militari emiratine e le nuove ambizioni di politica estera”.

LA STRATEGIA

L’obiettivo di Abu Dhabi, spiegano gli esperti, è “diventare una potenza pienamente in grado di influire sulla ricerca di nuovi equilibri regionali”. A tal fine, gli Emirati hanno elaborato una strategia coerente e composita, passando per “la messa a sistema, in una strategia coerente, dei vettori politici, economici e militari di cui dispongono”. L’opportunità per una simile ambizione è arrivata dalle Primavere arabe del 2011 e dalla conseguente instabilità regionale, contesto in cui gli emiratini hanno intravisto “l’opportunità per rilanciare il proprio ruolo nell’area”. Come? Facendosi primi interpreti “dell’opposizione all’islamismo politico – rispondono Crippa e Malomo – che ha rappresentato il principale vettore usato dalle principali potenze regionali concorrenti”, Arabia Saudita e Iran.

TRA SOFT E HARD POWER

Strategia che si compone di strumenti di soft e hard power. Per i primi, “va sottolineata soprattutto la leva economica, che è stata sfruttata in molteplici direzioni: per ampliare il raggio di influenza nell’area del Sahel, attraverso investimenti nel settore agricolo, energetico e delle infrastrutture; per approfondire i rapporti con i Paesi energivori dell’Asia; o ancora, tramite lo sviluppo del settore finanziario e del comparto logistica, per presentarsi come cerniera tra le macro-aree economiche dell’oriente e dell’occidente”. Per l’hard power, sorprende il corposo potenziamento dello strumento militare in un tempo piuttosto stretto. La spinta è arrivata negli anni ’90 direttamente dal vice comandante supremo delle Forze armate, il principe ereditario Mohammed bin Zayed al-Nahyan, desideroso di risolvere la scarsa preparazione dimostrata dalle truppe emiratine nella prima Guerra del Golfo. Dal 2006 al 2014 la spesa militare è cresciuta del 136%, si legge nel report del CeSI, raggiungendo quota 22,8 miliardi di dollari pari al 5,6% del Pil.

I CAMPIONI NAZIONALI DELL’INDUSTRIA

Tali risorse sono state utilizzate non solo per l’acquisizione delle migliori tecnologie fornite dai partner (Usa, Regno Unito e Francia su tutti), ma anche per lo sviluppo di una propria industria della Difesa. “Tale obiettivo – notano gli esperti del Centro – è stato inserito persino all’interno dell’Abu Dhabi Vision 2030, una strategia politica di medio-lungo termine che individua nella diversificazione economica il principale strumento per ridurre la dipendenza dallo sfruttamento dei combustibili fossili”. Sono nati così i due colossi nazionali: Emirati Defense Industry Company (Edic), risultato della fusione nel 2014 di 80 aziende attive nel settore difesa; e Abu Dhabi Ship Building (Adsb), già attiva nella manutenzione di navi, ma poi specializzata nella cantieristica navale militare per diventare “uno dei principali costruttori di naviglio e strumentistica militare presenti nell’area”. Il potenziamento ha coinvolto anche il personale, con l’introduzione della circoscrizione obbligatoria nel 2014 al fine di ridurre la dipendenza da truppe mercenarie (aspetto comunque ancora prevalente) attraverso un processo di “emiratizzazione”, ormai completo negli Stati maggiori.

LA DIFESA APPRESA SUL CAMPO…

Parallelamente, Abu Dhabi ha deciso di apprendere la difesa sul campo, approfittando della lotta occidentale al terrorismo dopo l’attacco alle Torri Gemelle per “proporsi come provider di sicurezza all’interno della regione”. Nasce da qui la partecipazione alle coalizioni a guida Usa in Afghanistan, Siria e Iraq, ma anche l’intervento più recente nella guerra in Yemen, emblematico della volontà di cercare autonomia rispetto alle mosse dell’Arabia Saudita. A livello di forze, la punta di diamante della Difesa emiratina è l’Aeronautica militare, con gli acquisti negli anni 2000 di 80 F-16 e 55 Mirage 2000, “che costituiscono ancora oggi la spina dorsale del potere aereo emiratino”. Si sommano alla capacità elicotteristica, con “60 elicotteri d’attacco AH-64 Apache, 19 elicotteri da trasporto pesante CH-47 Chinook e 26 UH-60 Battle Hawks (versione priva dei piloni armati)”. C’è poi da considerare la presenza nel territorio nazionale delle unità statunitensi e francesi impegnate nella lotta all’Isis. Come si legge nel report, alla base di al-Dhafra, a pochi chilometri dalla capitale, ci sono tra gli altri sei Rafale francesi, un gruppo di F-22 americani e droni da ricognizione.

…E QUELLA PREDILEZIONE PER I DRONI

A tutto ciò si aggiunge la spinta alla componente aerea a pilotaggio remoto. La scelta, secondo Crippa e Malomo, è strategica: “Operare all’interno dell’area mediorientale o saheliana significa sorvolare ambienti tradizionalmente permissivi, non popolati da sofisticati sistemi anti-aerei e non soggetti ad intense attività di guerra elettronica. Al netto di un tradeoff – spiegano gli esperti – tra costi e capacità, i cosiddetti ‘droni’ risultano una scelta decisamente più conveniente rispetto ai caccia tradizionali”. Inoltre, “condurre strike per mezzo di velivoli pilotati da remoto, specie all’interno di scenari di proxy war come quello libico, espone generalmente a minori implicazioni politiche, rispetto ad un attacco aereo convenzionale”. I droni in dotazione sono stati “ampiamente utilizzati dalle forze emiratine nel contesto yemenita ma, soprattutto, all’interno del teatro libico, a supporto del Libyan National Army guidato dal generale Khalifa Haftar”.

TRA RUSSIA…

Tale attivismo ha permesso agli Emirati Arabi di sedere al tavolo dei grandi, con un rapporto diretto anche con Russia e Cina. Con Mosca, si assiste a “una comunità d’intenti in Yemen e Siria”. Nel primo contesto, entrambi i Paesi sostengono il Consiglio di transizione del sud, i separatisti non sempre in linea nella comune lotta ai ribelli Houti con le forze dell’ex presidente Abdel Rabbo Monsour Hadi, alleato dell’Arabia Saudita. In Siria, “nonostante inizialmente si siano ritrovati a supportare fazioni opposte (rispettivamente le forze governative di Bashar al-Assad e quelle d’opposizione) in un secondo momento Russia ed Emirati si sono ritrovati su posizioni comuni: gli Eau sono stati la prima nazione a riaprire un’ambasciata a Damasco, nel tentativo di inserirsi nello scenario interno siriano”.

…E CINA

Abu Dhabi è riuscita anche ad assorbire la proiezione cinese. “Nel 2018, in seguito alla visita del presidente Xi Jinping negli Emirati, la prima in trent’anni, sono stati firmati sedici memorandum of understanding del valore complessivo di 3,4 miliardi di dollari”, molti su settore militare, high-tech, e intelligenza artificiale. Per gli emiratini, spiega il CeSI, “la collaborazione con Pechino rappresenta un’importante fonte di investimento in un periodo in cui l’economia di Abu Dhabi sta cercando di superare la forte dipendenza dal settore petrolifero”. Per Pechino, gli interessi si legano alla Nuova Via della Seta: “Il territorio emiratino, grazie alla sua posizione strategica, rappresenta un hub commerciale di importanza strategica, per lo sviluppo di collegamenti terrestri e marittimi, come confermato dai recenti investimenti cinesi nel porto di Jabel Ali, ad oggi il più grande porto container del Golfo”.

LE PROSSIME MOSSE DI ABU DHABI

In ogni caso, tra soft e hard power, la strategia di Abu Dhabi ha già raggiunto il primo obiettivo: “Far sì che gli Emirati siano riconosciuti come un attore geopolitico non più complementare, ma alternativo all’Arabia Saudita”. Cosa aspettarsi per il futuro? Secondo gli esperti del Centro studi internazionali, “dal momento che l’adozione di una postura assolutamente proattiva in politica estera ha di fatto aperto agli Emirati preziose opportunità di sviluppo economico e militare, senza al momento compromettere la reputazione del Paese, è lecito presumere che Abu Dhabi continuerà a perseguire tale strategia anche nel prossimo futuro, soprattutto in un contesto, come quello mediorientale e del Mediterraneo allargato, caratterizzato da numerosi focolai di instabilità e da una competizione sempre più accesa tra potenze regionali e globali”.

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