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Renzi cita Aldo Moro. Genesi e sviluppi di quel “non ci faremo processare”

“Per tutte queste ragioni, onorevoli colleghi, che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare”. Così disse Aldo Moro, il 9 marzo 1977, nel discorso pronunciato alla Camera dei deputati in occasione della discussione in aula sulle incriminazioni ai ministri Mario Tanassi e Luigi Gui.

Anche a questo intervento ha fatto riferimento, citandolo espressamente, Matteo Renzi quando si è espresso in aula, al Senato della Repubblica, in merito al dibattito sul finanziamento pubblico ai partiti.

L’ex premier, facendo riferimento all’inchiesta della magistratura fiorentina sulla fondazione Open, ha sottolineato di non volersi porre sullo stesso piano di Aldo Moro, se non per aver ricoperto la carica di Presidente del Consiglio e ha citato quel “non ci faremo processare”. Renzi ha spiegato che la vicenda dello scandalo Lockheed “ha segnato per la conseguenza più alta, le dimissioni di Giovanni Leone dal Quirinale non perché coinvolto, ma per uno scandalo montato ad arte dai media e parte dalla politica. Per distruggere la reputazione di un uomo può bastare la copertina di un settimanale”.

GUI E TANASSI

Il 9 marzo del 1977 i componenti di Camera e Senato si erano riuniti in seduta congiunta nell’aula di Montecitorio per discutere sulle incriminazioni degli ex ministri, il democristiano Luigi Gui e il socialdemocratico Mario Tanassi. La commissione parlamentare inquirente aveva rinviato a giudizio alla Corte costituzionale i due esponenti del governo accusati di corruzione nell’acquisto degli aerei Hercules, prodotti dalla società americana Lockheed e destinati all’Aeronautica militare italiana. Il 10 marzo Gui e Tanassi saranno rinviati a giudizio davanti la Corte Costituzionale.

MORO RISPONDE AI SUOI CRITICI

È stato lo stesso Aldo Moro, in un dettagliato articolo pubblicato su Il Giorno il 19 marzo 1977, a spiegare ai lettori l’intento del suo discorso tenuto nell’aula di Montecitorio dieci giorni prima. Il “pezzo” si intitola “Dopo il discorso in Parlamento: Moro risponde ai suoi critici”. Tra questi, lo statista menziona anche gli osservatori della stampa: “Ai giornali in particolare – scrive – vorrei pacatamente rispondere, da collega a collega, avvalendomi della cortese ospitalità de Il Giorno, al quale sono onorato di collaborare. Il Presidente della Dc non ci gira intorno: “Vi è chi ha parlato di una mia arroganza nei confronti del Parlamento, di un tentativo di bloccare, impedendo la formulazione dell’accusa, il corso della giustizia. Questi rilievi non hanno il minimo fondamento. Non c’è dubbio che le Camere riunite abbiano nel nostro discutibile ordinamento, la funzione autonoma, libera, incondizionata di sottoporre a giudizio gli ex ministri. Ciò deve avvenire attraverso un dibattito ed un voto, nel corso dei quali tutte le posizioni pro e contro possono, anzi debbono farsi valere. Prospettare una specie di automatismo costituzionale, illegittimamente formato da quella che è solo la difesa dell’imputato, significa intaccare il meccanismo configurato del legislatore con il suo minimo di garanzie. Alla stregua di questo curioso ragionamento, nessuno potrebbe difendersi in sede istruttoria, senza che gli venga addebitato di deviare in tal modo il procedimento nel suo svolgersi. La solennità con la quale questo rilievo è stato formulato (si tratta del resto di giornalista che parla sempre ex-cathedra) può appena nasconderne il significato aberrante e la (modesta) vis polemica. La critica potrebbe essere avanzata, solo se si affermasse, il che è impossibile, che l’iniziativa del Parlamento è puramente formale. Ovvero se si ammettesse chiaramente che un potere di scelta esiste, ma che, nel caso di discussione, non era opportuno esercitarlo, per dare finalmente  all’opinione pubblica la certezza che colpevoli di alto livello vengono perseguiti. Ma allora non si può negare di aver politicizzato il processo, posponendo una ragione di giustizia ad una ragione di opportunità”.

Poi, Moro risponde ad un secondo tipo di critica, quella concernente la difesa dell’amico di partito Luigi Gui: “Da un’altra parte si afferma – continua – che la mia difesa non avrebbe obiettivamente giovato all’onorevole Gui ed anzi, secondo una versione più maliziosa, che neppure fosse rivolta a giovargli, avendo io tratto pretesto del caso Lockheed per fare un discorso politico generale. Che il mio intervento abbia aiutato o meno la persona ingiustamente chiamata in causa, io non sono in grado di dire. Quali fossero, però la mia intenzione, la mia speranza ed il mio impegno non dovrebbe essere dubbio, solo se si consideri la mia antica amicizia e la mia assoluta certezza dell’innocenza”. Il leader Dc fa riferimento alla sovranità parlamentare: “Si è detto che il Parlamento ha vinto. Certo questo verdetto deve essere rispettato. È la decisione che conta, anche se, da una parte o dall’altra la si possa nel merito contestare. L’idea che il Parlamento vinca, a seconda che prevalga l’una o l’altra tesi, è da respingere perché lesiva della dignità dell’alto consesso, il quale decide bene, e quindi, vince, tutte le volte che esso esercita, correttamente, il suo potere sovrano”.

Poi un riferimento alla personalità dello scrivente: “Io non sono un uomo da cambiare – afferma – quando si tratti di orientamenti meditati e perseguiti con coerenza nel corso di una lunga esperienza politica. Ho sempre operato, ed anche in questa circostanza, con piena fiducia nel mio partito, con piena consapevolezza della sua funzione, certo non esclusiva, ma insostituibile e di estrema importanza. Ma l’ho sempre fatto con grande equilibrio. Non sono dunque allettato dalle utopie. V’è chi, deformando il mio pensiero, mi attribuisce obiettivi non seri, per potermi presentare come un visionario destinato alla sconfitta. Tra le tante parole, che non fanno avanzare di un passo sulla via della soluzione dei drammatici problemi del Paese, io mi sono mosso col più freddo realismo nella mia azione politica e di governo, che è stata talvolta considerata immobilistica, nella misura della quale non mi sono abbandonato all’immaginazione. È per realismo, oltre che, naturalmente per rispetto della verità, che io ho distinto coloro che dibattito non hanno superato certi limiti da coloro che li hanno sorpassati, coloro che hanno parlato con riguardo da coloro che hanno parlato senza alcun riguardo. Ed ho ammonito che chi si proponga di fare, contro la verità, il processo globale alla Democrazia cristiana, chi voglia qualificarla di indegnità morale e politica (e vi sono state voci in proposito) si colloca su una linea che preclude la collaborazione democratica. È un monito che andava fatto è che può essere ricevuto per quello che esso significa, né più, né meno”. Moro respinge le accuse contro la Dc: “Quando le cose saranno valutate con più accuratezza – ribadisce – ed obiettività, si vedrà che molti sono mali di fondo, lentamente e faticosamente curabili, prodotti o non rimossi in forza di responsabilità  che sono più vaste di quelle che si riferiscono al partito che ha più a lungo gestito il potere e con maggior influenza. Ma non invoco certo nessuna immunità, anche se respingo le generalizzazioni offensive, se richiamo, com’è mio dovere, com’è mia profonda convinzione, il significato complessivo di questa esperienza, collocata nel momento storico nel quale essa si è svolta. In modo particolare sono stato accusato di aver evocato il primato della Democrazia cristiana e per giunta come fondamento di un indirizzo politico. Che cosa mai c’è da attendersi, ci si domanda, da questa inopportuna, anacronistica riaffermazione, proprio mentre questo partito è isolato e sconfitto? V’è intanto chi contesta la genuinità , il valore di questo consenso, quasi che, più che di un’adesione, si tratti di una necessità. Altro, insomma, è la quantità, altro la qualità. Su quest’ultimo punto vorrei dire che conta la scelta che si fa, il giudizio finale che si dà in una situazione politica e di una situazione politica. In un Paese teso ed inquieto come il nostro, dove c’è sempre sproporzione tra immaginazione e realtà, questa, diciamo così, riserva sul voto, riguarda un po’ tutti i partiti, ma non ha le dimensioni che vengono indicate. Si può dire che quel che si accetta preclude quello che decisamente non si vuole. È quindi chiaro che l’elettorato non ha voluto accordare il primato al Partito comunista e che ha visto, pur tra tanti confusi risentimenti e vagheggiamenti, nell’integrità della forza e del prestigio della Democrazia cristiana la più efficace difesa di intuizioni e di valori che ha considerato ancora una volta irrinunciabili”. Moro conclude così il suo articolo: “Ho dunque richiamato il nostro primato, fatto che implica diritti e doveri, per significare queste cose, per concentrare l’attenzione sulla realtà e per rispondere con fierezza e dignità a coloro che intendevano ed intendono contestare radicalmente la Democrazia cristiana. E non sono andato al di là del segno. Non ho affermato una pretesa di esclusività o anche solo di egemonia. Collocandoci sempre su un terreno di pari dignità, anche se la misura del consenso è diversa, noi democratici cristiani siamo sempre stati per la collaborazione e lo siamo ancora. Basta solo che non si deformi la nostra fisionomia, che non ci si consideri, a differenza degli altri, portatori di interessi parassitari, che si rispettino le nostre idee, che non si menomi il nostro prestigio e non si disconosca la nostra funzione. La quale è, lo sappiamo bene, essenziale e commisurata alla nostra posizione di maggior partito italiano. Che sia o meno predominante, come si discute, è forse una disputa oziosa. Certo che non pretendiamo di obbligare gli altri, non dettiamo le nostre condizioni. Ma nessuno può trattarci come fossimo boccheggianti ed elevare, nei nostri confronti, una questione morale”.

L’ANALISI DEL DISCORSO DI MORO DEL 9 MARZO 1977

Ha spiegato il politologo Gianni Baget Bozzo ne L’intelligenza e gli avvenimenti, edito da Garzanti nel 1979: “Moro ha tanto credito da parlare in nome della Dc, questo linguaggio ad un Parlamento attento e compunto. Ciò vuol dire che la grande crisi della Dc è finita: il monocolore delle astensioni ha ottenuto il suo risultato. Moro ha rialzato la Dc innanzi a sé stessa ed innanzi al Paese. Un anno dopo lo scenario sarà assai diverso. Molte cose, in quest’ultimo Moro, sembrano come addensare la tempesta, costruire i binari in cui si incamminerà il dramma, predefinite la sua posizione in esso. In questo discorso, che è al vertice della gloria di un uomo che ha troppa autorità è troppo poco potere, vi è un giro di frase da cui risulterà domani la totale scomposizione tra Moro e la Dc reale. Spiegando perché la Dc non si è voluta precostituire un alibi morale consentendo l’incriminazione di Gui che essa reputava innocente, Moro afferma: ‘Sarebbe stato come offrire, per la nostra utilità di partito, per un alibi di partito, una vittima alla ragione di Stato. Non sappiamo se questo atteggiamento ci gioverà o danneggerà. Non ce lo domandiamo, perché la ragione per la quale lo prendiamo è troppo grande per essere barattata con un ammiccamento, contro coscienza, alla opinione pubblica’. Questo è il linguaggio di Moro che si sovrimprime alla Dc e diviene il suo linguaggio. Ma un anno dopo, le immagini si sarebbero divaricate ed i linguaggi contrapposti”.

Anche Marco Follini, moroteo fin da giovane, nella Democrazia Cristiana, edito quest’anno da Sellerio, rileva quel che sarebbe venuto: “Quel suo discorso – ha scritto – di così inconsueta nettezza, lascio’ perplessi alcuni parlamentari democristiani e offrì un sollievo solo momentaneo al l’orgoglio della base militante. In compenso fu un tentativo, forse l’ultimo, di prendere per le corna un toro che nel proseguo ci sarebbe venuto addosso senza troppi riguardi”.

LO SCANDALO LOCKHEED RITORNA IL 15 MARZO 1978 

Se le accuse a Gui e Tanassi erano tutte da dimostrare, restava da scoprire chi fosse l’ex presidente del Consiglio coinvolto nella vicenda è il cui nome in codice era Antelope Cobbler.  Si legge ne Il potere fragile di David Sassoli e Francesco Saverio Garofani, edito da Fandango nel 2013: “Sulle tracce di Antelope le voci si rincorrono. Finché  proprio il 15 marzo la fantomatica Antelope si svela: da ambienti prossimi alla Segreteria di Stato americana rimbalza una notizia clamorosa: l’Antelope Cobbler è Aldo Moro”. E, si legge nel libro, un paio d’articoli, su La Repubblica, firmato da Franco Scottoni e sul Corriere della Sera, con le dichiarazioni di un ex ambasciatore in Pakistan, Luca Dainelli, accosterebbero il nome di Moro allo scandalo. L’informazione che ha preso di mira Aldo Moro è “piuttosto pasticciata”, ma pronta per essere pubblicata il 16 marzo, giorno del varo del governo monocolore guidato da Giulio Andreotti e fortemente voluto dal presidente della Dc. La sera del 15 marzo Aldo Moro valuta con Corrado Guerzoni, il suo portavoce, l’eventualità di una risposta alla campagna diffamatoria che lo sta tirando in mezzo.

Con gli anni a venire gli sviluppi della vicenda Lockheed smentiranno ogni sospetto su Aldo Moro a partire dal suo coinvolgimento. Ma il 16 marzo, alle ore 9.02, in via Fani a Roma il presidente della Dc fu rapito dai terroristi che uccisero i cinque uomini della sua scorta. Aldo Moro fu assassinato il 9 maggio del 1978.


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