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Sanità. Se l’Italia del no blocca anche la ricerca

La ricerca in campo sanitario ha consentito in passato, e consente tutt’oggi, di scoprire nuove e sempre più efficaci terapie. Basti pensare ai grandi passi avanti nella cura dell’epatite C o ai farmaci antiretrovirali nei casi di Hiv, ma anche all’utilizzo delle Car-T Cell nell’immunoterapia o degli anticorpi monoclonali nella cura di malattie autoimmuni o di alcune forme di cancro. L’industria farmaceutica, infatti, è a livello internazionale il settore che investe maggiori risorse in ricerca e sviluppo, più di comparti ad alto valore tecnologico come quello informatico o automobilistico. E l’Italia rappresenta in tal senso un esempio virtuoso, un hub produttivo in Europa, con ricadute positive non solo sulla salute dei cittadini, che possono godere di nuovi strumenti diagnostici e terapeutici, ma anche sull’economia nazionale.

CHI FINANZIA LA RICERCA?
Secondo una ricerca realizzata da Cergas-SDA Bocconi, nel 2016 i finanziamenti per la ricerca clinica erano pari a circa 788 milioni di euro. Del totale, però, solo il 7,5% era erogato dallo Stato, mentre l’89% da aziende private (il restante 3,5% da fondi Ue e dal 5 per mille dei cittadini). E il trend attuale non sembra discostarsene: in media negli ultimi cinque anni (2014-2018) le imprese hanno finanziato circa il 92% della ricerca clinica, mentre il contributo pubblico è stato del 4% .

CONFLITTO DI INTERESSI
Per questa ragione, negli anni,sono stati sollevati alcuni dubbi in merito all’indipendenza della ricerca e all’eventuale conflitto di interessi: il soggetto che fa ricerca, per le suddette ragioni, è in prevalenza il medesimo che può trarne profitto. Da un punto di vista prettamente etico, potrebbe apparire così. Considerando però il contesto, com’è razionale in un’analisi costi-benefici, occorre considerare in primis che senza questi soggetti la ricerca in Italia sarebbe quasi inesistente e, in secondo luogo, che il comparto farmaceutico è l’unico dove un aumento dei profitti derivante delle vendite implica inevitabilmente un miglioramento della salute dei cittadini.

D.LGS 52/2019 E LEGGE LORENZIN
Per contrastare un eventuale conflitto di interessi, ad ogni modo, l’Italia ha introdotto il D. Lgs. 52/2019 (attuativo della legge n. 3/2018, Legge Lorenzin) in materia di sperimentazioni cliniche, dove all’articolo 6 ultimo comma sancisce che: “Fatta salva ogni altra disposizione normativa in materia, lo sperimentatore, a tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità della sperimentazione clinica, dichiara preventivamente alla struttura presso la quale si svolge lo studio clinico, l’assenza, rispetto allo studio proposto, d’interessi finanziari propri, del coniuge o del convivente o di parente entro il secondo grado, nel capitale dell’azienda farmaceutica titolare del farmaco oggetto di studio, nonché l’assenza di rapporti di dipendenza, consulenza o collaborazione, a qualsiasi titolo, con il promotore”. In breve sostanza, il ricercatore non deve avere, o aver avuto, alcun tipo di rapporto con l’azienda che avvia la ricerca per scongiurare qualunque forma di legame con la stessa.

RICERCATORI (IN)DIPENDENTI
Un’ipotesi piuttosto improbabile, se si tiene conto del fatto che la ricerca in Italia è realizzata, appunto, quasi al 95% da privati. “Scrivere che la ricerca non può essere affidata a ricercatori che abbiano o abbiano avuto rapporti di consulenza o collaborazione a qualsiasi titolo con il promotore non tiene conto del fatto che nel nostro Paese ogni ricercatore di buon livello ha inevitabilmente avuto rapporti di collaborazione scientifica con le aziende farmaceutiche”, ha detto a Formiche Dario Manfellotto, presidente eletto Fadoi, una delle associazioni che maggiormente si è esposta contro la norma. “È noto che il contributo pubblico al finanziamento della ricerca sia inferiore al 10% – ha aggiunto – e dunque del tutto insufficiente”.

IL PERICOLO PER LE IMPRESE ITALIANE
Sembrerebbe tra l’altro che nell’elaborare la norma – tutta e solo italiana – non si sia tenuto conto delle ripercussioni che la stessa può avere sul sistema, sanitario ed economico. Il decreto, infatti, finisce per allontanare la ricerca dall’Italia, spingendola verso altri Paesi, e annullando quel vantaggio competitivo conquistato negli anni. “L’obiettivo della legge approvata nel 2018 sulla riorganizzazione dell’assetto della ricerca clinica era quello di rimettere l’Italia in gioco rispetto ai competitor stranieri”, ha dichiarato Beatrice Lorenzin, prima firmataria della legge n. 3/2018, poi stravolta nella sua applicazione. “Il decreto legislativo rischia di rappresentare lo spartiacque negativo per il futuro della sperimentazione clinica in Italia”, ha aggiunto la deputata. “In questo modo le case farmaceutiche, onde evitare qualunque rischio di conflitto di interesse, beneficeranno comunque delle eccellenze italiane, ma adoperandole all’estero”, ha asserito Agostino Migone de Amicis, responsabile dipartimento Sanità e farmaceutico di Pavia-Ansaldo e presidente del comitato etico indipendente di Humanitas. Della medesima opinione Manfellotto, secondo cui “L’incompetenza o l’ignoranza, nel senso di non conoscere ciò su cui si legifera, di alcuni nostri legislatori hanno dell’incredibile e si uniscono a un inutile moralismo che rischia di bloccare un settore trainante del nostro sistema sanitario”.

4-6 MILIARDI DI EURO L’ANNO
“La ricerca non si fa nel mondo delle idee, ma in quello reale, dove ci sono costi, investimenti, contatti, scambi di opinioni, scelte e programmazioni anche economiche”, ha sottolineato a Formiche Serena Sileoni, vice direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni. “L’autorevolezza e l’indipendenza della ricerca di qualsiasi tipo – ha aggiunto – non dipendono tanto da chi paga, ma dalla serietà, dalla responsabilità (che è anche trasparenza) e dall’esigenza di mantenere alta la reputazione di chi la conduce. Valori e obiettivi che è più probabile coesistano quando la scienza incontra anche il profitto rispetto a quando non deve rispondere ad alcun criterio, nemmeno economico. In un mondo dalle risorse finite, pensare che ci possano essere conflitti di interesse tali da azzerare le potenzialità di contatto tra profitto e ricerca vuol dire compromettere le possibilità di ricerca stessa”. “Non solo la ricerca scientifica, ma anche la formazione medica – ha commentato Manfellotto – rischiano di essere bloccate da queste norme inutili e dannose che mettono a rischio un intero settore e centinaia di migliaia di posti di lavoro”. Ricordiamo infatti che il valore della singola ricerca è pari a circa 2-3 milioni di euro l’una per cui, con 1.500-2.000 ricerche attive su territorio nazionale, rischiamo di “buttare con le nostre mani fra i 4 e i 6 miliardi di euro”, come ha ammonito Migone de Amicis.

IL POSITION PAPER
Per questa ragione, alcune fra le più rilevanti associazioni e società scientifiche nazionali hanno sottoscritto il position paper “Disciplina dei conflitti d’interessi e futuro della ricerca clinica (indipendente e non) in Italia”, promosso fra gli altri proprio da Fadoi. “Una siffatta ottica – si legge nel documento – scoraggia in primo luogo la diffusione della speculare, e virtuosa, cultura della trasparenza e rende qualsiasi disclosure fonte, anziché di affidamento e chiarezza, di patemi d’animo e di ulteriore sospetto, con effetti feedback facilmente intuibili. Spingendo il ragionamento fino ai limiti del paradosso, si dovrebbe concludere che è riservata agli sperimentatori meno qualificati la possibilità di operare quali [Principal] investigators, essendo essi meno “gettonati” dai promotori degli studi clinici e in particolare dalle aziende produttrici”.

PIÙ CONTROLLO, MENO BUROCRAZIA
“Il decreto 52 – ha concluso Manfellotto – prevedeva che Aifa presentasse un documento con le modalità idonee a tutelare l’indipendenza della sperimentazione e garantire l’assenza di conflitti di interesse. Purtroppo il termine previsto, 13 settembre 2019, non è stato rispettato e ora il sistema rischia la paralisi. Urge un documento Aifa o che, addirittura, intervenga lo stesso governo per correggere il tiro”. “Con questo approccio – ha evidenziato Migone de Amicis – non si va lontano, anzi si buttano dalla finestra risorse preziose che il Servizio sanitario nazionale non sarà in grado di reperire altrimenti. Per garantire trasparenza abbiamo tutti gli strumenti necessari: incrociando le dichiarazioni già obbligatorie con il decreto Cassese del 2001, i dati del ministero della Pubblica amministrazione e gli obblighi che Farmindustria impone a tutti i suoi associati, il controllo è già possibile, solo che il controllo nel nostro Paese è merce rara”.

 

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