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Lo Stato-imprenditore, tra vocazione e limiti. L’analisi di Chimenti

Di Stanislao Chimenti

Il susseguirsi sempre più frequente di crisi industriali, bancarie e finanziarie, peraltro sempre più gravi, impone alcune riflessioni di vertice non più procrastinabili che attengono all’analisi della natura di tali crisi e alle possibili soluzioni da approntare. Come è noto, la prima risposta dell’ordinamento è stata di natura normativa sulla scorta dell’assunto per cui le crisi sono imputabili alla mancata previsione di efficaci funzioni di controllo e di vigilanza. Di qui, l’intensificarsi delle potestà di vigilanza esercitate dallo Stato tramite le proprie articolazioni e, principalmente, tramite le cosiddette autorità amministrative indipendenti, le quali sono state potenziate quanto a funzioni, attribuzioni, risorse; ciò proprio al fine di condurre in emersione fenomeni di crisi in modo sempre più tempestivo.

Tale soluzione, seppure condivisibile, non appare tuttavia idonea a fornire una risposta esaustiva. Invero, la genesi delle crisi in atto non può rinvenirsi, in via esclusiva, nella mera violazione o elusione dei pur necessari controlli di legge; essa, piuttosto, sembra essere l’inevitabile terminale di un problema ben più grave e di natura per così dire “strutturale” attinente a quella che, secondo la felice formula adottata da Sabino Cassese (La Nuova Costituzione Economica, Bari, 1995), chiamiamo “costituzione economica”.

Il vero è che il fenomeno di cosiddetta globalizzazione dell’economia, avviatosi oramai a far tempo dalla fine del XX secolo, è tutt’ora in atto e anzi in costante aumento.
Ciò, per un verso, ha posto le imprese e gli imprenditori italiani a diretto contatto con i competitori stranieri, rendendo la concorrenza sempre più serrata e agguerrita.
Per altro verso, ha rappresentato una sfida che lo Stato e il nostro ordinamento non sempre hanno mostrato di sapere raccogliere efficacemente. Come ben evidenziato ancora da Sabino Cassese (op. cit.), l’evoluzione della “vecchia costituzione economica” può idealmente scomporsi in quattro grandi periodi storici: il primo è quello che va dal 1861 alla fine del secolo XIX; il secondo è quello che arriva fino agli anni Venti del secolo XX; il terzo arriva sino alla metà del secolo XX; il quarto è quello che va dalla metà del secolo XX al 1970.

L’ideale percorso evolutivo e di tendenza che si snoda lungo tale periodo evidenzia un progressivo stemperarsi del liberismo economico più ortodosso iniziale, per giungere a forme sempre più marcate di intervento dello Stato nell’economia in un’ottica di economia mista. A partire dagli anni Ottanta del XX secolo si è poi registrata un’inversione di tendenza che prende le mosse dall’impulso proveniente dalla Comunità Economica Europea prima e dall’Unione Europea poi.

In estrema sintesi, la nuova costituzione economica si fonda sui principi di concorrenza, libera circolazione di persone, merci, capitali; in generale, si assiste ad un progressivo “arretramento” dello Stato dall’economia e, anzi, di transizione dallo Stato – imprenditore allo Stato – regolatore. E allora, quali sono stati gli indirizzi promossi da questa nuova impostazione rispetto alle sfide poc’anzi evocate del mondo globalizzato e del superamento dei confini nazionali dell’economia? Invero, i risultati, allo stato, non possono dirsi soddisfacenti.

Giova ricordare che anche nello Stato asseritamente liberale e liberista di fine Ottocento, la mano pubblica intervenne energicamente per supportare il processo di prima industrializzazione del Paese (avviatosi con enorme ritardo rispetto agli altri Paesi Europei); il supporto venne prestato in relazione a un profilo apparentemente ancillare, ma strategicamente determinante: quello delle infrastrutture. Vennero create ex novo infrastrutture non solo “fisiche” (viarie, ferroviarie, portuali), ma anche di natura sociale, con la creazione, ad esempio, dell’Ina e la realizzazione dell’intero edificio della previdenza sociale, pilastro indispensabile per supportare il mondo del lavoro e dunque dell’impresa. Del resto, è ben noto che, ancorché improntato ai principi del corporativismo, il diritto del lavoro è stato al centro anche della riforma del codice civile del 1942 e della sua unificazione con il codice di commercio, il cui quinto libro è significativamente intitolato non già all’impresa, bensì al “lavoro nell’impresa”.

Ancora. Come noto, in Italia vigeva sino agli anni Trenta il sistema della c.d. banca mista, che operava sia a breve termine, sia quale azionista, finanziando cioè a lungo termine. Le banche, dunque, erano diventate le principali azioniste (vere e proprie holding) di tutti i principali gruppi industriali del Paese (siderurgico, chimico, automobilistico, ecc.). Quando tali gruppi entrarono in crisi per il propagarsi del crollo di Wall Street del ‘29, chiesero credito ai propri azionisti, cioè alle banche, che vennero così travolte da quello che era un evidente conflitto di interessi. La risposta alla drammatica crisi del ’29 portò alla radicale separazione tra banca e industria e alla creazione dell’Iri e all’intero sistema delle partecipazioni statali. È interessante notare come, da una logica di necessità e di urgenza, cioè di salvataggio, si sia presto compresa la necessità di un intervento non episodico ed emergenziale, ma strutturale.

Non si tratta oggi di rievocare anacronisticamente i tempi dello Stato dirigista, opzione evidentemente impraticabile nel mondo contemporaneo. Si tratta però di prendere atto che, oramai, il Paese versa nuovamente nell’urgente necessità di ammodernare, se non creare ex novo, proprio quelle infrastrutture che oggi sono malfunzionanti, obsolete, o del tutto carenti. L’intervento dello Stato nell’economia, dunque, lungi dal rappresentare una formula propagandistica, o peggio dogmatica, va piuttosto inteso, al giorno d’oggi, come necessità impellente di ripensare e rifondare una vera e propria politica industriale ed energetica, funzionale ad un effettivo “sviluppo economico” del Paese e a una valorizzazione dei propri settori ritenuti strategici nel complesso gioco della concorrenza globale.

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