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La fantastoria di bin Salman che hackera Bezos. La ricostruzione

Il telefono personale della persona più ricca del mondo è stato hackerato tramite un video inviatogli su WhatsApp dall’erede al trono della più potente monarchia del mondo – WATTBA!.

La storia: con uno scoop formidabile della giornalista Stephanie Kirchgaessner, il Guardian ieri sera ha pubblicato un articolo in cui ricostruisce un hackeraggio subito da Jeff Bezos, il patron di Amazon e proprietario a titolo personale del Washington Post (tra le tante cose).

Secondo le informazioni ottenute dal giornale inglese, a compiere l’attacco informatico contro il “Top Richest Man” di Forbes sarebbe stato Mohammed bin Salman in persona, erede al trono saudita, kingmaker del Golfo e demiurgo della “Vision 2030” con cui Riad progetta di aprirsi al mondo oltre il petrolio.

La cosa è talmente grossa, se fosse confermata, che si fatica ad andare con ordine. Allora proviamoci partendo dalla smentita saudita: l’ambasciata del regno negli Stati Uniti dice che “i recenti resoconti dei media che suggeriscono che il Regno sia alla base di una violazione del telefono di Jeff Bezos sono assurdi” e per questo “un’indagine su queste affermazioni”. Le vie legali sono il minimo.

È un punto di partenza. La smentita che arriva dal governo saudita è un fatto di per sé, sebbene si ricorderà che Riad sul caso dell’assassinio Jamal Kashoggi aveva inizialmente dichiarato di non essere coinvolta, salvo poi fare un clamoroso passo indietro ammettendo che erano stati elementi dei servizi (deviati?) a massacrare il 3 ottobre del 2018 il giornalista saudita del Washington Post nel consolato di Istanbul – l’inversione di rotta era arrivata quando sia la Turchia che la Cia aveva fatto uscire prove praticamente inconfutabili sul coinvolgimento del regno e dei suoi massimi vertici.

Secondo la ricostruzione fatta uscire dal Guardian, il primo maggio del 2018 bin Salman aveva inviato a Bezos un messaggio su WhatsApp che conteneva un video con un virus per hackerare il telefono del capo di Amazon. I due si erano conosciuti qualche settimana prima a una cena a Hollywood e da lì avevano chattato alcune volte. Col click su quel video gli smanettoni da Riad avrebbero potuto accedere a tutti i file presenti nel telefono di Bezos. Al momento non si sa quale siano di preciso i dati sottratti (ma ci sono storie parallele che potrebbero dare informazioni circostanziali, ci si arriverà).

Il Guardian ha costruito il suo scoop tramite fonti, ovviamente rimaste anonime, che sono a conoscenza dei fatti. La notizia sarebbe a valle di un’analisi forense effettuata sul telefono di Bezos e sarebbe confermata anche da Agnès Callamard, che per le Nazioni Unite ricopre il ruolo di relatrice speciale per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie (al momento della stesura di questo articolo, Callamard non ha ancora commentato).

C’è un collegamento tra quello che è successo a Kashoggi e l’hacking contro Bezos, proprietario del giornale per cui l’editorialista scriveva e tramite il quale si era costruito un seguito enorme come voce contraria al nuovo corso del regno? Non è possibile dirlo in questo momento.

Però adesso, per condire la storia pazzesca, va fatto un flashback in cui si ricorda un altro episodio del tema Arabia Saudita-contro-Bezos. Nel febbraio dello scorso anno, il capo di Amazon aveva pubblicamente denunciato David Pecker, proprietario di uno dei più controversi e fakeniusari tabloid d’America, il National Enquirer. Con un lunghissimo post su Medium, in cui si spiegava tutto per filo e per segno, Bezos diceva che Pecker lo stava ricattando. Minacciava di far pubblicare delle sue foto intime che riguardavano la sua relazione extraconiugale con Lauren Sanchez (giornalista americana per cui Bezos, a gennaio del 2019, lasciò la storica moglie MacKenzie: anche il divorzio fu storico, perché coinvolgeva le quote di proprietà di Amazon, l’azienda più capitalizzata al mondo).

Pecker, con il ricatto a Bezos, voleva ottenere in cambio un trattamento meno duro e aggressivo da parte del Washington Post. Il WaPo, il più venduto giornale del mondo, stava coprendo con attenzione e costanza i problemi giudiziari del tabloid e di Pecker, che era tra le varie cose era sotto inchiesta per comportamento lobbistico scorretto proprio per conto dell’Arabia Saudita.

Bezos, davanti al ricatto, aveva subito chiesto al suo addetto alla sicurezza, l’espertissimo investigatore privato Gavin de Becker, di scoprire come avesse fatto Pecker a ottenere le sue foto private. A marzo, de Becker, disse pubblicamente che il proprietario del National Enquirer era entrato in possesso di foto private e messaggi del capo di Amazon grazie all’aiuto dell’Arabia Saudita, che si era occupata di trafugare le informazioni e consegnarle poi al tabloid.

Perché Riad era stata così disponibile e interessata a colpire Bezos? Secondo de Becker perché il Washington Post aveva pubblicato molti articoli di inchiesta e di opinione sull’uccisione del suo editorialista Jamal Khashoggi da parte della squadraccia dei servizi del governo saudita, e aveva fatto uscire informazioni esclusive sul fatto che la missione fosse stata eterodiretta da Mohammed bin Salman.

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