Skip to main content

Se la Tunisia è la chiave per la crisi in Libia. Parla Castaldo (M5S)

I riflettori del Vecchio Continente sono puntati sulla Libia. Accanto al Paese martoriato da una guerra per procura spezzata solo da esili tregue si potrebbe però celare la chiave, se non della soluzione, di una graduale uscita dall’impasse libico. La Tunisia viene fuori da una delicata fase di transizione istituzionale, ma è anche un Paese democratico, che rispetta i diritti umani, e ha ottime relazioni con i Paesi Ue. Coltivare i rapporti bilaterali, spiega a Formiche.net Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento Ue, eurodeputato della prima ora del Movimento Cinque Stelle appena tornato da Tunisi dopo aver guidato la missione di osservazione Ue per le elezioni presidenziali e legislative, può fornire una carta in più all’Italia.

Castaldo, perché puntare sulla Tunisia?

Perché è il Paese che più di tutti nella regione è coerente con i nostri valori e condivide la stessa visione sui diritti umani. La transizione democratica è davvero riuscita. Le istituzioni hanno retto bene, nonostante le elezioni anticipate seguite alla morte del presidente Essebsi. Certo, non mancano i problemi: disuguaglianze, corruzione, stagnazione economica. Noi possiamo aiutare i tunisini a godere di un loro diritto fondamentale: il diritto a restare.

Basta elargire fondi?

I fondi devono essere gestiti e non dilapidati dalla corruzione. Prima serve una riforma della Pubblica amministrazione e rilanciare la crescita. E, ovviamente, stabilizzare la transizione politica. Il presidente della Repubblica Kais Saied ha dato l’incarico di formare un nuovo governo a Elyes Fakhfakh, una personalità moderata e terza rispetto ai due principali partiti.

Un Giuseppe Conte tunisino…

Glielo auguriamo (ride, ndr). Dovrà dimostrare di essere all’altezza della cultura e dell’abilità politica di Conte.

A proposito, in questi giorni c’è stata qualche frizione diplomatica con Tunisi dopo le citofonate emiliane di Matteo Salvini…

È surreale che un uomo che ha avuto l’onore di ricoprire un incarico di alto profilo come quello di ministro dell’Interno possa permettersi sparate del genere per la becera ricerca di consenso elettorale, rovinando peraltro i rapporti con un partner strategico come la Tunisia.

Strategico perché può aiutare l’Ue in Libia?

Eccome. La popolazione tunisina ha radici culturali ed etniche affini a quelle dei libici. Per lunghi tratti il confine con la Tripolitania non è altro che una barriera artificiale, diverse famiglie vivono in villaggi da una parte all’altra della linea. Inoltre il Paese ha mantenuto una neutralità proattiva nella crisi libica, promuovendo una tregua ma senza entrare nella guerra per procura, e questa oggi è una carta preziosa da giocare.

Si parla di una missione Onu. È utile?

Sono favorevole a una forza di interposizione sotto l’egida dell’Onu cui prendano parte gli Stati Europei. Ci sono però delle condizioni.

Ad esempio?

Devono essere coinvolti gli Stati arabi. Sarebbe un grave errore alimentare l’immagine di una ingerenza europea, quasi neocoloniale, negli affari libici. La popolazione deve percepirla come un’operazione di pace.

Può aiutare a far rispettare l’embargo di armi. O no?

È un aspetto fra i tanti. Non basta un blocco navale per fermare il traffico di armi, che prende altre vie, come quella aerea o terrestre. Le armi già ci sono in Libia. Numeri alla mano, sono più i fucili delle persone. Dopo lo sciagurato intervento del 2011 nessuno si è occupato del disarmo delle milizie, e questo è il risultato.

E invece una missione Ue avrebbe qualche chance?

Credo poco a una missione europea. Si muoverebbe in un quadro legale non definito e sarebbe con ogni probabilità percepita come una forza di invasione, col rischio di stimolare le cellule jihadiste con la comune causa di respingere la “crociata” dell’Europa cristiana contro le terre dell’Islam.

Come se ne esce?

Una soluzione, ripeto, sta nel coinvolgimento degli Stati arabi e soprattutto dell’Unione Africana, presente alla Conferenza di Berlino ed elemento cruciale per legittimare una missione internazionale.

Sono davvero decisive le conferenze internazionali?

Non mettono a tacere l’escalation di violenza. Al di là del dialogo serve un piano di azione. L’Italia ha due carte importanti.

Quali?

Un retaggio di contatti con gli attori sul campo e con la società libica. E una linea chiara: abbiamo sostenuto il governo riconosciuto dall’Onu di Fayez al-Serraj senza mai trascendere nel ruolo di sponsor di una guerra per procura.

Modello Unifil?

La missione Onu in Libano a guida italiana è un esempio virtuoso. Con la forza muscolare e delle soluzioni unilaterali non si fa altro che trasformare la Libia in una nuova Siria. Questo, sommato all’instabilità del Sahel, creerebbe le condizioni perfette per un ritorno in forze di Daesh.

Anche l’operazione Sophia è a guida italiana. È il momento di rilanciarla?

L’ammiraglio Enrico Credendino ha svolto un grande lavoro. È giusto riavviare le operazioni di pattugliamento nel Mediterraneo centrale, purché sia chiaro il mandato della missione. Addestramento della guardia costiera libica, tutela della sicurezza, controllo dell’embargo di armi? È fondamentale dissipare ogni dubbio sulle regole di ingaggio.

In Francia e Germania si discute dell’opportunità di istituire un Consiglio di Sicurezza dell’Ue per coordinare meglio la politica securitaria.

Sono scettico. Da anni sosteniamo l’opportunità di una riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Un organismo che tutt’oggi è plasmato sull’ordine mondiale nato con il secondo dopoguerra, e che invece dovrebbe essere aperto alle organizzazioni regionali. Non vedo l’utilità di mutuare questo modello per l’Ue. Mi sembra più urgente una riforma della regola dell’unanimità per rendere più efficace la politica estera comunitaria.

Politica estera che divide troppo spesso gli Stati membri. Come con la crisi venezuelana, che è approdata di nuovo a Bruxelles in questi giorni con la visita di Juan Guaidò.

Sul Venezuela la posizione dell’Italia è stata la più previdente: ha manifestato prudenza, evitando strappi che avrebbero facilitato l’avvio del Paese verso una guerra civile. Giusto condannare le ultime elezioni affette da brogli e non riconoscerne l’esito. Ora l’unica strada è spingere con intelligenza il governo di Maduro a un passo indietro e chiedere un voto libero, da repressioni interne e ingerenze esterne.

×

Iscriviti alla newsletter