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Dalla Libia all’Iraq, la diplomazia senz’armi non funziona. Parola di Cicchitto

Bando alle soluzioni politically correct. La diplomazia senza armi, spiega Fabrizio Cicchitto, già presidente della Commissione Affari Esteri della Camera e presidente di Rel (Riformismo e Libertà), è una matita spuntata. La Libia insegna, ma anche l’Iraq. Sono gli uomini sul campo, e la deterrenza militare, ad avere l’ultima parola.

Senatore Cicchitto, anche il vertice di Mosca fra Serraj e Haftar è stato un flop.

Forse la mancata firma della tregua da parte di Haftar è dovuta a ragioni contrattuali o forse si sente abbastanza forte sul campo da poterla rifiutare. Quali che siano le motivazioni, l’incidente ci insegna una grande lezione.

Ovvero?

La diplomazia senza armi è patetica. Qui sta tutta la debolezza della posizione italiana. Per principio abbiamo scelto non solo di non usare armi, ma anche di non venderle al nostro alleato Serraj, consentendo alla Turchia di bypassarci. Russia, Turchia, Stati Uniti, Cina combinano diplomazia, finanziamenti e armi, la diplomazia “pura” è inutile.

L’Italia ha ancora un asso nella manica?

Si può discutere della proposta di Di Maio sui caschi blu dell’Onu, ma la vedo difficile. Il modello sarebbe quello già sperimentato al confine fra Libano e Israele, una forza di interposizione in cui possiamo inserirci. Potrebbe essere un’occasione per recuperare il peso perduto.

Sempre che…

Sempre che ci sia la disponibilità delle forze in campo di Haftar e Serraj. E delle due potenze che li schermano, Russia e Turchia, che dovrebbero accettare di essere parzialmente espropriate della loro influenza.

Ma all’Italia conviene una Libia divisa in due?

C’è altra scelta? L’unico modo di far arretrare una delle due parti è una guerra. Purtroppo non c’è speranza che uno dei due faccia un passo indietro. Al massimo si può ottenere un altro cessate-il-fuoco.

Frattini ha proposto di far rimuovere le sanzioni Ue alla Russia per guadagnare un potente alleato in Libia.

Un’idea folle. Ci mettiamo contro tutti senza ottenere nulla, e abbracciamo una inutile subalternità che neanche la Russia ci chiede, rimpiazzando i nostri partner europei e gli Stati Uniti. Un capolavoro di diplomazia.

Da quando l’Italia ha perso presa sul dossier libico?

Da quando è morto Gheddafi, su questo ci sono pochi dubbi. Berlusconi nel 2011 si trovò accerchiato e fece l’errore di non resistere alle pressioni. Di Obama e Sarkozy da una parte. Di Napolitano, Frattini, della Russia e di una sinistra oltranzista e guerrafondaia dall’altra.

Poi?

Abbiamo ripreso il filo con Minniti, che centrò la questione chiave: Gheddafi gestiva con il bastone 140 tribù. È stato eliminato ma non sostituito. Minniti capì che si doveva tornare alle origini, parlare con i sindaci, i capi tribù.

Cosa è andato storto?

Quei geni del suo partito, a cominciare da Orfini, lo condannarono senza appello.

Oggi ha senso puntare sugli Stati Uniti?

Sono Erdogan e Putin a dare le carte. Vale anche per la Siria, affiancati dalle milizie sciite comandate fino a due settimane fa da Qassem Soleimani.

A proposito, che idea si è fatto del raid americano?

Sul piano strategico una mossa impeccabile. Gli Stati Uniti hanno anzitutto dimostrato che esistono in Medio Oriente, e secondo poi eliminato l’uomo più pericoloso dell’intera regione, per loro e per Israele.

Guerini ha detto che per ora l’Italia rimane in Iraq.

Per il momento è giusto tenere sul campo i nostri soldati. La presenza nel Mediterraneo e in Medio Oriente è strategica per l’Italia. Anche qui vale la stessa lezione: senza una forza militare e una direzione politica non si può esercitare influenza.

Cicchitto, un bilancio sulla politica estera rossogialla? C’è un po’ di confusione?

Eccome se c’è, ma è trasversale alla politica. Da una parte il Movimento Cinque Stelle, che ha un rapporto preferenziale con la Cina. Dall’altra un’opposizione, quella leghista, che ha un canale prioritario con Mosca, salvo improvvisi smarcamenti filoatlantici come nel caso dell’uccisione di Soleimani.

In mezzo il Pd…

Dovrebbe essere la forza più affidabile, i fatti dimostrano altro. In nome della famosa discontinuità Zingaretti ha scelto di collocare Di Maio alla Farnesina, in un ruolo di straordinaria importanza globale, invece che nel posto che più gli competeva: la vicepresidenza del Consiglio. Così navighiamo a vista, e altri decidono per noi.

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