Solo quattro anni fa, al costo di 5 miliardi di dollari, Disneyland sbarcava a Shanghai, il polmone finanziario della Cina colpita a morte dal coronavirus. Ora, uno dei parchi divertimenti più grandi del mondo, sta subendo la sua prima chiusura forzata e nemmeno tanto breve.È lo specchio dell’emergenza, non più solo cinese, del virus tanto simile alla Sars, che costò alla Cina la perdita di 25 miliardi di dollari in Pil, senza considerare gli oltre 200 miliardi bruciati fin qui dalle Borse asiatiche. Ora, il coronavirus non solo si sta mangiando la crescita cinese (Standard&Poor’s ha stimato per il Dragone un costo pari all’1,2% del Pil), già ai minimi da 30 anni, ma sta mettendo in ginocchio anche tante altre imprese che hanno investimenti in loco. Oltre alla Disney, ci sono molte aziende simbolo dell’economia Usa: c’è Starbucks, McDonald’s. Ma non solo…
DISNEYLAND CHIUDE
L’uno-due rifilato dal coronavirus alla major americana dell’intrattenimento non è da poco. Dopo quello di Shanghai, ha annunciato lo stop anche il parco giochi Disneyland di Hong Kong per il timore della diffusione dell’epidemia. La tempistica è lunga. La chiusura durerà da oggi fino al giorno successivo a quello in cui le autorità dichiareranno conclusa l’emergenza virus. “Come misura precauzionale in linea con gli sforzi di prevenzione in atto a Hong Kong, stiamo temporaneamente chiudendo il parco Disneyland di Hong Kong per motivi di salute e per la sicurezza dei nostri ospiti e dei membri del cast”, ha spiegato la Disney. Il danno è importante, soprattutto a Shanghai, dal momento che si tratta del sesto resort firmato Disney nel mondo, il primo nella Cina continentale al punto da ospitare circa 100 mila visitatori al giorno grazie a una superficie di 963 acri, l’equivalente di circa mille campi da calcio.
TUTTE LE VITTIME (INDUSTRIALI) DEL CORONAVIRUS
Ma non sono solo la Disney e i suoi parchi cinesi a pagare dazio. Walmart, la più grande catena di distribuzione al mondo e che ha più di 400 punti vendita in tutta la Cina, ha dichiarato pochi giorni fa di seguire le raccomandazioni ufficiali imposte dal governo cinese, valutando la chiusura dei punti vendita. Ancora, McDonald ha annunciato di aver sospeso le operazioni a Wuhan e nelle città circostanti dove i mezzi pubblici sono stati chiusi. La società ha inoltre annunciato misure per monitorare la salute dei propri dipendenti in tutta la Cina. E c’è anche Starbucks, che ha dichiarato di aver chiuso tutti i negozi e sospeso i servizi di consegna nella provincia cinese di Hubei, dove si trova Wuhan. Stessa, o quasi, storia per altri due colossi, uno sempre americano, H&M, l’altro svede, Ikea. Inchiodata dal coronavirus anche le compagnia aeree. Delta Airlines ha annunciato che consentirà ai viaggiatori con voli prenotati da, attraverso o attraverso Pechino o Shanghai fino al 31 gennaio di modificare i propri itinerari senza pagare una tassa di modifica.
TRA MERCATI E LUSSO
Il bollettino di guerra non finisce qui. Se c’è un’industria che rischia di essere letteralmente travolta dall’epidemia di origine cinese, è il mercato del lusso. Un settore che solo nel 2018 è cresciuto del 5% a 1,3 miliardi di miliardi di euro e a cui gli acquisti cinesi, in patria o all’estero, hanno contribuito al 90% a questo incremento. Senza considerare che oltre un terzo dei beni del settore finiscono nelle mani di compratori cinesi. Un calo della domanda cinese colpirebbe pesantemente i colossi del settore. Uno studio di Rbc Capital, citato dal Financial Times, mostra come sia ampia l’esposizione di brand come Swatch, Richemont, Burberry, ma anche Kering, Moncler e la galassia Lvmh. Secondo una stima della stessa società, una caduta del 10% dei consumi cinesi nel primo semestre 2020 comporterebbe una diminuzione del 2% dei ricavi delle compagnie legate al lusso e a un calo del 4% dei profitti annuali.