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Fra trattativa e insorgenza permanente. Il dopo Soleimani spiegato da Bressan

Ieri il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha scritto su Twitter che “la fine della presenza maligna degli Stati Uniti nell’Asia occidentale è iniziata”, e la milizia irachena Kata’ib Hezbollah ha chiesto ai concittadini di stare lontani dalle basì americane. Messaggi. D’altronde ciò che è certo è che con  l’omicidio del generale iraniano Qassem Soleimani, il presidente Usa Donald Trump ha di fatto imposto una svolta senza precedenti all’approccio statunitense nei confronti dell’Iran e in particolar modo delle milizie sciite operanti in tutto il Medio Oriente.

La linea seguita sin qui da Trump e da Mike Pompeo, il segretario di Stato, incentrata sul principio della “massima pressione” e dell’isolamento internazionale nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran, si è posta, sin dall’inizio, l’obiettivo di smantellare il JCPOA pensato di Barack Obama, senza tuttavia avere preclusioni nel ridefinire un nuovo deal, ma basato su capisaldi differenti. Pompeo in più di una circostanza e soprattutto all’indomani dell’uscita statunitense dal JCPOA nel maggio 2018 ha, “in chiaro”, mandato un messaggio molto preciso sulle questioni dirimenti del possibile nuovo accordo: limitazione delle attività dei proxy iraniani nella regione — ossia il piano curato da Soleimani attraverso le milizie — e congelamento del programma missilistico iraniano.

I due punti sono per Teheran, senza ombra di dubbio, un’asticella molto alta da raggiungere. sia per il rapporto strutturale con i vari proxy, sia perché, da parte iraniana, si contesta il diritto all’autodifesa e quindi alla necessità di poter sviluppare un programma di missili balistici. Avendo ben presente questa premessa, si può cercare di capire il messaggio e la celerità con la quale Washington è riuscita a colpire il Generale Soleimani — che era stato, fino ad oggi, il grande architetto della presenza iraniana nella regione.

Eliminando una figura carismatica come Soleimani, gli Usa hanno fissato e ribadito non una, ma almeno tre linee rosse così definibili: se gli Usa possono colpire il comandante della più importante forza speciale iraniana possono colpire qualsiasi leader delle milizie sciite in ogni parte del Medio Oriente; gli Usa considerano non negoziabile la loro presenza in Iraq; il margine di manovra e di capacità operative dei proxy iraniani in tutta la regione, in particolar modo in Iraq, verrà contenuto e contrastato. Da questi paletti si può dedurre chesebbene l’azione possa apparire azzardata e al limite dell’incendiario per le possibili rappresaglie, gli intenti si confermano coerenti con quanto sin qui sostenuto pubblicamente da parte dell’amministrazione americana e dallo stesso Trump nella conferenza di ieri notte.

A questo punto, comunque, al di là della narrazione incendiaria in Iran e dell’incremento di militari statunitensi negli ultimi mesi e ore nella regione, è difficile pensare ad una escalation che vada a coinvolgere direttamente il territorio iraniano. Ipotizzare agevoli operazioni militari sul territorio iraniano o, peggio ancora, sottostimare la capacità di reazione delle forze iraniane sul proprio territorio sarebbe un errore di proporzioni ben più grandi della guerra scatenata nel 2003 contro Saddam Hussein (motivata peraltro da prove false). Più verosimile che lo scontro si tramuti in una serie di azioni e reazioni, tra Usa e Iran, sul suolo iracheno.

Uno scenario di insorgenza permanente che vedrebbe l’Iraq configurarsi come un ambiente fortemente ostile alla presenza statunitense e che certamente non agevolerebbe la stabilizzazione del paese — rispetto alla quale non si sono trovate risposte, in primo luogo di natura politica, per prevenire un ritorno di forme d’insorgenza come quelle che portarono all’affermazione dello Stato Islamico. Uno scontro che tuttavia non sarebbe la riproposizione di quanto già visto tra il 2003 ed il 2010 e che, alla luce della tensione delle ultime ore, non è scontato che resti del tutto confinato all’Iraq.

Ecco perché l’omicidio del generale Soleimani, comandante che, come ricordato da Haaretz, ha avuto nella sua storia anche momenti di “cooperazione informale” con Washington (vedasi indicazioni sui bersagli Talebani da colpire in Afghanistan dopo l’11 settembre, l’interruzione degli attacchi ai militari americani condotti dall’Esercito del Mahdi e la comune lotta allo Stato Islamico in Iraq), da un lato, ristabilisce la capacità di esercitare deterrenza da parte degli Usa nei confronti dell’Iran nella regione, dopo il vuoto parzialmente lasciato a Russia e Turchia in Siria, ma dall’altro potrebbe anche essere un metodo fuori dai tradizionali schemi diplomatici per riportare l’Iran ad un nuovo tavolo dei negoziati.

Un obiettivo non semplice e per nulla scontato, al di là del tweet sibillino di Trump Iran never won a war, but never lost a negotiation”. Dichiarazioni di cui non si può non tenere conto, ammesso che entrambi gli interlocutori vogliano di nuovo mettersi seduti intorno allo stesso tavolo.

 *Matteo Bressan è analista della Nato Foundation e Docente di Relazioni internazionali e studi strategici presso la Lumsa

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