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Dove muove il centro? Il destino dei popolari secondo Lucio D’Ubaldo

Nei giorni scorsi, attorno alla relazione di Lillo Mannino al convegno di alcuni gruppi moderati di estrazione democristiana, si è ripreso a ragionare sulle prospettive dell’area di centro, avanzando in particolare la sollecitazione per un rilancio in chiave unitaria dell’iniziativa dei popolari.
Qualcosa si muove nel perimetro dello schieramento di destra.

Riprende forma un disegno che però, al di là delle ambizioni, nel passato è stato assorbito dal movimentismo proteiforme di Berlusconi. Ed è proprio il declino della parabola di Forza Italia, coincidente con quella del suo leader indiscusso, a dare stavolta alla suggestione neo-centrista una maggiore potenzialità di accreditamento presso la pubblica opinione. Ma nel caso, quando la partita consiste nella scomposizione e ricomposizione degli equilibri politici, nulla può esser dato per scontato.

In questa fase, a vario titolo, molti discutono e trattano del centro. È un coro più o meno vivace che non permette di distinguere una voce preminente. Anche gli intellettuali che nel ‘92 sostennero il referendum sulla legge elettorale, da cui è scaturito il ruvido bipolarismo della seconda repubblica, giudicano indispensabile con il ritorno al proporzionale la costituzione di un partito di centro a cui delegare eminentemente una funzione stabilizzatrice del sistema.

Tuttavia, se l’aggregazione di varie forze intermedie tra destra e sinistra fosse concepita e vissuta all’insegna di un mero equilibrismo di potere, non sarebbe in grado di esercitare un effettivo potere di attrazione. In realtà, fare del popolarismo il caregiver del moderatismo suscita un moto di stupore. Non è questa la tradizione del cattolicesimo democratico. Del resto, il massimo che produce il moderatismo è una visione rinunciataria del centro, in aperta contraddizione con quel criterio direttivo, fatto di spirito di progresso, che De Gasperi riassumeva nella formula del “centro che muove verso sinistra”.

Ora, invece di rappresentare la “coscienza critica” di un mondo che non si rassegna alla deriva della Lega e cerca una via d’uscita dal radicalismo nazional-populista; invece di contribuire, pertanto, a un esame più rigoroso degli errori compiuti fino ad oggi, specie per aver dimenticato che l’unità dei cattolici democratici e popolari costituisce una pre-condizione dell’unità della nazione sulle questioni decisive del nostro tempo; e dunque, invece di essere un fattore di novità e di stimolo, per individuare su almeno cinque grandi temi (europeismo, debito pubblico, economia digitale, politiche di welfare, demografia) le convergenze funzionali a una nuova alleanza democratica; ecco il neo-centrismo, in conclusione, esporsi al rischio della sua autoreferenzialità fino a perdersi nel gioco della sopravvivenza purchessia, giungendo a riperpetuarsi, pur al tramonto del berlusconismo, come rilancio della più che sperimentata opzione a destra.

Purtroppo anche il discorso di Mannino può prestare il fianco ad un’ambiguità di fondo: “Ora credo che noi ci si debba rivolgere – ha infatti detto l’ex ministro – al mondo rappresentato dalla Lega per superare la Lega. Questa la funzione di un nuovo Partito popolare”. In realtà è un’affermazione assai sfuggente. Come avverrebbe questo superamento? Con chi e perché? Per tenere la Lega all’opposizione o per farne ex novo, dopo un eventuale suo ridimensionamento, l’alleato irrinunciabile?

Sono domande importanti o meglio ineludibili, non solo agli occhi dei più diretti interessati, per dissipare il dubbio che il richiamo al popolarismo sia fatto in maniera puramente strumentale, senza il giusto spirito ricostruttivo. Ricostruire il centro oggi, dandogli una riconoscibilità come vettore del rinnovamento, esige nell’ottica del cattolicesimo democratico la capacità di plasmare, insieme ad altri e con coerenza, una più autentica coalizione riformatrice.



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