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Emilia Romagna, perché fra Bonaccini e Borgonzoni si staglia l’ombra di Conte

Bando alle formalità. Le elezioni in Emilia-Romagna non sono più regionali neanche sulla carta. Lo ha spiegato l’ex ministro Dc Enzo Scotti su Formiche.net: la narrazione di entrambi gli schieramenti in campo le ha trasformate in un’ipoteca sul governo Conte II, ora non resta che prenderne atto.

Lo stanno già facendo i principali quotidiani italiani dove fioccano interviste, analisi e scenari sul dopo-Conte, non sul dopo-Bonaccini. E se sui sondaggi vige ormai il silenzio elettorale (cui sopperiscono le solite corse di cavalli, bighe, e via dicendo) sembra chiaro a tutte le forze politiche che la corsa alla roccaforte rossa può davvero trasformarsi in una rincorsa a Palazzo Chigi. Il testa a testa fra la Borgonzoni e il governatore uscente che le ultime rilevazioni fotografano in coro basta da solo a far rumoreggiare i corridoi romani.

E forse la metafora del citofono, evocata da uno scherzo di cattivo gusto di Matteo Salvini, è davvero la più adatta per cogliere il senso di questa tornata, accoppiata al meno vibrante e comunque decisivo voto in Calabria. Lunedì mattina potrebbe partire una trafila di squilli. A Palazzo Chigi, con Salvini, Meloni e Berlusconi pronti a bussare al portone di Giuseppe Conte. E da Palazzo Chigi al Quirinale, perché comunque vada in Emilia-Romagna un check-up con il presidente Sergio Mattarella è in programma. D’altronde l’inquilino del Colle lo ha detto senza girarci intorno. A settembre, quando ha battezzato il governo rossogiallo, ha chiarito che, in caso di nuova crisi, non avrebbe difeso un accanimento terapeutico.

Da quel monito prendono vita in queste ore le dozzine di ricostruzioni su un’eventuale transizione post-Conte. Maurizio Lupi, leader di Noi con l’Italia, ha le idee chiare: sei mesi di “governo istituzionale” e poi voto a ottobre. Un esecutivo di ordinaria amministrazione che ordinaria non è, perché, dice al Corriere della Sera, in mezz’anno dovrebbe “affrontare le grandi crisi industriali che minacciano il Paese; fare la legge elettorale assieme e in accordo; mettere a punto i correttivi istituzionali rimasti in sospeso”. Un piano ottimista che però trova sponde anche in casa Lega, con Giancarlo Giorgetti che, a differenza di Salvini, in queste settimane ha sempre evocato il voto, ma non il voto subito. Anche Lorenzo Fioramonti, già ministro dell’Istruzione, già grillino, ora nel Misto, pensa che “un governo diverso” sia “una possibilità”, ma, precisa, “non strizzo l’occhiolino al centrodestra”.

Certo, non è detto che da sole le elezioni in Emilia-Romagna debbano decidere le sorti del governo. Da sole. Ma sul destino dell’esecutivo pende un’altra spada di Damocle: Matteo Renzi. L’ex premier e leader di Italia Viva ne ha mandata giù qualcuna in questi mesi. Su una cosa però non vuole proprio transigere: la riforma della prescrizione di Alfonso Bonafede. A scanso di equivoci lo ha già dimostrato nei fatti, facendo votare alla pattuglia di vivaisti l’ordine del giorno dell’azzurro Enrico Costa per bloccare la riforma.

Obiettivo mancato, come da pronostici, ma lo strappo di Renzi, che Bonafede ha definito “isolato”, potrebbe ripetersi con il “lodo Conte”, la via mediana di cui discute la maggioranza e che i renziani hanno bollato come “incostituzionale”. Se i dubbi di Renzi si sommano alle dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico del Movimento e alla turbolenta fase di transizione che dovranno affrontare i pentastellati da qui agli Stati generali di marzo il rischio di una tempesta perfetta si fa concreto. Né, se questa si dovesse verificare, basterebbe l’esile appiglio del referendum confermativo sulla riforma del taglio dei parlamentari, ottenuto all’ultimo con un coupe de théatre di Salvini e sigillato dalla Consulta. Il Quirinale come da protocollo vorrà con ogni probabilità garantire il regolare svolgimento della consultazione prima di meditare una fine anticipata della legislatura. Un ponte di sei mesi, e poco più. Non è abbastanza per dormire sereni questa domenica.

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