L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea suggella la crisi della comunità di Stati che a lungo si era illusa di poter rimanere coesa, nonostante divergenze, dissapori, incomprensioni.
La crisi nel Mediterraneo, e segnatamente in Libia, ha evidenziato l’inanità ed il velleitarismo di un progetto politico ambizioso, purtroppo interpretato da uomini non all’altezza di portarlo a compimento. La spaccatura verticale sulla fine di Gheddafi aveva già messo in risalto la volontà di potenza di qualcuno, Sarkozy tanto per uscire dal vago, a svantaggio di altri partner europei, l’Italia sempre per essere chiari.
L’aggressività politica, economica, tecnologica e ora anche culturale cinese, che si configura come un vero e proprio progetto neo-colonialista, a cui è seconda soltanto quella russa, mentre le mire del mondo arabo islamico si fanno sentire, ed inquieta non poco nello stesso tempo l’apparizione sulle rive del Mediterraneo dell’Iran attraverso il corridoio iracheno, spalleggiato da Hezbollah e da Hamas, inducono a pensieri piuttosto neri circa la sopravvivenza e l’autonomia almeno del mondo euro-mediterraneo squassato da sottili malesseri che si colgono anche in Algeria, in Tunisia, in Marocco (con qualche scaldaletto di troppo) e in Egitto.
E da ultimo, ma non ultimo il taglio netto dell’asse franco-tedesco che a lungo ha trainato, nel bene e nel male, l’Europa che sembrava non volerne sapere del suo destino, accende bagliori sinistri su questa appendice d’Occidente di cui è il cuore e l’anima.
Un panorama più che scoraggiante, da brividi. Considerando anche che le politiche nazionali di alcuni Paesi sono francamente franate per la pessima gestione delle classi dirigenti che pur avevano fatto immaginare realizzazioni in linea con politiche continentali di spessore.
La Francia è da un anno e mezzo sotto scacco di gilets jaunes, ferrovieri, pensionati, agricoltori: un malessere che si coglie nelle grandi come nelle piccole città, in campagna e nella grande capitale che sembra smarrita, prossima si direbbe al collasso e fornisce il biglietto da visita di una decadenza che mai immaginavamo così rapida e profonda. Scioperi, proteste, disordini, impoverimento del ceto medio ed un presidente incapace di capire il suo Paese formano un quadretto per niente invidiabile alle democrazie mediterranee cui non è mai stato risparmiato niente, l’Italia, la Spagna e la Grecia sopravvivono come possono ed ora si avvicinano nel peggio al “regno” di Jupiter Macron.
La Grosse Koalition in Germania sta dando il peggio di sé, mentre si allungano fantasmi che venivano ritenuti esorcizzati una volta per tutte. L’euroscetticismo è cresciuto da quando Angela Merkel ha annunciato il suo ritiro dalle scene e, per quanto vi resterà ancora un po’ esso sarà marginale ed insignificante, considerando la sua solitudine non più lenita dal rapporto con la Francia, come da tradizione consolidata che è andata in fumo per ragioni attinenti ad una diversa considerazione dell’Europa. E alla prevalenza di egoismi ciechi e sordi alle richieste di una comunità che aveva bisogno di guadagnare fiducia agli occhi del mondo, mentre si è bamboleggiata assumendo come suo tratto distintivo il meretricio politico. Basta vedere quel che si combina in quei Paesi dell’Est, “liberati” trent’anni fa ed oggi non ancora integrati politicamente ma sempre in attesa del salvatore di turno.
Tuttavia – e s’è visto nell’ultimo vertice di Berlino sulla Libia – Germania e Francia continuano ad accarezzare sogni egemonici, e soprattutto cercano alleati-vassalli nell’Unione da poter esibire nel trattare con la Cina e con la Russia, ma anche con il Sultano ottomano che da Ankara sembra dettare i suoi desideri all’Europa della quale fa parte, mentre non disdegna di approcciarsi discretamente a Ryad dove tra i molti giochi che vi si combinano ce n’è uno riservato soltanto all’Europa: ricattarla come si deve, non diversamente da come avviene con donne di malaffare. Il petrolio e le armi sono chiavi che aprono ogni porta. Oltre alla Porta Sublime d’Oriente, è ovvio.
Certo, Trump, nel lavorare alacremente alla divisione dell’Europa per poterla meglio “controllare” (se non governare tout court) raccoglierà briciole dalla sua politica semi-isolazionista: i vantaggi certi della Brexit ed un rapporto privilegiato con il Commonwealth che si rassetterà a fronte di un’Europa prima della Gran Bretagna e bisognosa di stabilire rapporti bilaterali che soltanto un’organizzazione come l’Unione degli ex-membri dell’impero possono garantire.
Germania e Francia, quasi in stato catatonico, continuano ad immaginare che i loro interessi (e le loro crisi) nazionali possano essere proiettati sull’Unione europea a loro servizio. Temiamo che non abbiano ancora focalizzato il problema.
Ed il problema non è soltanto la disgregazione di quel poco di Europa – avvenuta non certo per mano di improbabili sovranisti – ma l’attacco concentrico che sembra si stia sviluppando attorno all’Europa da Sud, da Est e anche da Occidente dove gli Stati Uniti sono impegnati in un disegno strategico geopolitico teso a delegittimare del tutto l’Europa, farne riserva di caccia, utilizzarla come una sorta di Svizzera, neutrale e pacifica, sulla quale montare i loro affari.
Tanto Serraj quanto Haftar hanno ben compreso nel summit tedesco dello scorso fine settimana che rivolgersi ancora all’Europa è tempo perso. Meglio incomodare Putin che tra una riforma e l’altra per rafforzare la sua autocrazia trova il modo di occuparsi della sponda sud del Mediterraneo o Erdogan che poco più di un secolo dopo si trova con le sue velleità ottomane a dettare legge su quelle sponde dalle quelli il sultano di Istanbul venne cacciato.
Chi si prenderà cura di ciò che rimane dell’Europa? È un interrogativo che schiaccia il Vecchio continente e legittima – non l’avremmo mai immaginato – la Brexit come via di fuga dal caos nel quale neppure un Metternich riuscirebbe a mettere un po’ d’ordine.