Che cosa ha guidato la decisione di Donald Trump di eliminare il generale Qasem Soleimani e altri comandanti militari iracheni e iraniani? L’innata vocazione alle mosse impulsive? L’ossessione anti-iraniana? L’insistenza dell’intelligence e dei militari a cogliere un’opportunità, o considerazioni elettorali? Forse un mix di tutto questo: le parole del magnate presidente, il “mentitore in capo”, non ci aiuteranno a scoprirlo.
Certo è che così Donald Trump ha spostato le lancette dell’orologio della pace bruscamente vicine alla mezzanotte della guerra: con l’azione killer fuori dall’aeroporto di Baghdad, il mondo diventa improvvisamente un posto molto più pericoloso. Chi vi racconta che quell’azione è stata condotta nel nome della sicurezza vi racconta una panzana.
C’è il dubbio che il magnate presidente anteponga i suoi calcoli elettorali a ogni altra considerazione. Come del resto la vicenda dell’Ukrainagate, all’origine della procedura d’impeachment in atto, ha già dimostrato su un livello di pericolosità incommensurabilmente inferiore. Trump sa che un clima di conflitto tende a coagulare il consenso intorno al presidente: negli Stati Uniti ci vogliono anni perché un conflitto, anche ingiusto e assurdo come il Vietnam e l’invasione dell’Iraq, diventi impopolare.
L’attacco statunitense altera il quadro degli eventi prevedibili del 2020: la Brexit, il clima e Usa 2020 parevano i titoli dominanti, vicende cruciali, ma senza il pathos dell’imprevedibile e senza l’ansia della minaccia incombente. Adesso, il livello d’allarme si è alzato, con l’epicentro in Medio Oriente: ci vorrebbero la lucidità e l’autorità per stemperare animosità e rivendicazioni, ma i protagonisti sono più incendiari che pompieri, con i leader iraniani che annunciano vendetta. I comprimari? L’Europa ha forse lucidità, ma le manca l’autorità – e pure la volontà – di farla valere.
La stampa internazionale è praticamente unanime, dal New York Times ad Al Jazeera, nel giudicare l’uccisione di Soleimani “a major escalation”, una gravissima escalation nelle relazioni già tesissime tra Stati Uniti e Iran, un passo sconsiderato verso il baratro di un conflitto dalle prospettive non bene calcolate.
L’azione ordinata dal presidente Trump colloca tutto il 2020 in una prospettiva sinistra di guerra e di sangue: rischia d’innescare un conflitto nella regione e di avere come corollario sussulti di terrorismo un po’ ovunque nel mondo.
Le criticità della sicurezza internazionale si sono acutizzate nelle ultime 72 ore: c’è l’intreccio letale d’interferenze esterne e tensioni interne tra Iran, Iraq, Siria, che si è aggrovigliato; e l’interventismo della Turchia in Libia inasprisce il conflitto, là dove altri attori esterni, fra cui l’Italia, stavano rivalutando l’equidistanza; infine, il dittatore nord-coreano Kim Jong-un si ricorda al mondo, e specie a Trump, che ogni tanto lo esibisce come trofeo della sua politica estera, con propositi minacciosi.
Gli eventi di Baghdad incideranno sulle elezioni presidenziali del 2020? E sulla procedura di impeachment? Il presidente degli Stati Uniti verrà eletto il 3 novembre: ci aspettano 300 giorni di campagna elettorale, passando attraverso le primarie – da febbraio a giugno -, le convention – in estate –, e i dibattiti presidenziali tra settembre e ottobre. Il tempo per digerire quanto appena avvenuto c’è, se si arresta la spirale dell’escalation, e non è detto che ciò avvenga.
Tutto potrebbe prendere colori più intensi e avere sbocchi imprevisti se la procedura d’impeachment contro Trump non si esaurisse presto in Senato, ma restasse viva: sarebbe un peso sul percorso elettorale del magnate presidente, o un boomerang su quello dei suoi rivali. Che oggi sono in prima linea, da Joe Biden a Elizabeth Warren, a denunciare che Trump abbia gettato “dinamite in una polveriera”.