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Ecco come Italia e Francia sono finite all’angolo sulla Libia. L’analisi di Carteny

A oltre cento anni dalla guerra italo-turca e dall’intervento del giovane regno d’Italia in Libia, la Tripolitania e la Cirenaica tornano sulla scena internazionale come province, parti di un insieme più grande di cui sono ancora componenti ma rispondenti a orbite geopolitiche differenti. È la prospettiva emersa negli ultimi giorni, con l’appello al cessate il fuoco che le potenze storicamente in competizione sul Vicino Oriente, Russia e Turchia, hanno lanciato per il 12 gennaio. Erano d’altronde differenti vilayet, unità amministrative ottomane, la regione di Tripoli, Bengasi, e l’entroterra desertico, il Fezzan, unite dalla fame coloniale italiana, ultime terre libere dal dominio di altre potenze europee: la rinuncia alla Tunisia ormai francese, vero nodo dell’Italia risorgimentale e in ascesa alla ricerca del “sacro egoismo” nella proiezione mediterranea, poteva essere bilanciata solo da una “quarta sponda” dimensionalmente estesa e adatta all’insediamento coloniale. La mappa del Mediterraneo segnava su quella terra il nome latino, imperiale romano, quasi a richiamare un patrimonio italico di cui riprendere possesso: nasce così la storia della Libia contemporanea, unità – come tante altre regioni dell’est e sud del mondo euro-centrico – artificiale nello scacchiere geopolitico odierno.

LA SVOLTA DEL 2020 

Il ritorno in prima linea della Turchia, erede dell’Impero ottomano, è in qualche modo una nemesi rispetto allo storico interesse italiano per l’altra sponda del Mediterraneo: Roma, aprendo a colloqui diretti con Haftar, si è ritrovata scavalcata dall’iniziativa operativa turca, che ha portato il presidente Recep Tayyip Erdogan a schierare “boots on the ground” i propri soldati. Il relativo ma ritrovato protagonismo delle ultime ore da parte del governo di Roma, con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Affari esteri Luigi Di Maio impegnati nell’incontrare i leader libici e delle altre grandi potenze per cercare di far tornare al tavolo negoziale le parti in conflitto, consolida il cessate-il-fuoco russo-turco e rilancia la conferenza di Berlino, rimandata oltre un mese fa per la recrudescenza degli scontri sul campo e l’avanzata di Haftar ad ovest di Tripoli.

Se l’azione di Roma è chiaramente apparsa in affanno, quella di Parigi – protagonista nella caduta di Gheddafi e nella competizione agli interessi energetici dell’Italia – è per lo meno emersa come marginalizzata dal ruolo primario svolto da Mosca e Ankara: Washington, invece, rimane il convitato di pietra in questo baricentro mediterraneo, presente solo negli echi del confronto con l’Iran degli Ayatollah in Medioriente.

Ma come mai in quest’ultimo anno si è realizzata una situazione di guerra civile in Libia, che mette in discussione importanti fattori di stabilità per l’Europa e il contesto internazionale, come la questione migranti, la produzione energetica e la lotta al terrorismo?

LIBIA O LIBIE? 

In tutti questi ambiti lo scontro civile inizia dalla composizione tribale delle province libiche prima e dopo il periodo coloniale italiano, assumendo il carattere di conflitto proxy di altri paesi qui a confronto nella regione e nello scacchiere internazionale. La cultura e l’egemonia dei Senussi, la confraternita sufi radicatasi in Cirenaica, è il principale ambiente di coagulo della resistenza anticoloniale: emerge come movimento di indipendenza e afferma re Idris come monarca della Libia indipendente e federale a metà Novecento, prima della presa del potere di Muhammar Gheddafi, raìs libico dal 1969 al 2011. L’unità dello “scatolone” libico, quindi, viene rimessa in discussione dalla guerra civile innescata dall’abbattimento del regime di gheddafiano, a seguito di un’operazione internazionale ispirata al principio della “responsabilità a proteggere” (R2P), svolta sotto l’ombrello della risoluzione 1973/2011 dell’Onu e realizzata dalla Nato: di questo abbiamo scritto, con il coordinamento scientifico di Antonello Folco Biagini, nel volume “Libia 1911-2015. Dalla quarta sponda alla minaccia del Califfato” (Miraggi edizioni, Torino). L’incapacità degli attori sul campo di ripristinare l’ordine sull’intero territorio nazionale ha definito lo scenario con cui ci confrontiamo oggi e su cui aleggia il “ritorno” dell’egemonia turca.

La differenza delle tribù orientali e le esigenze autonomistiche della regione di Bengasi riemergono dunque nell’ultimo decennio, spalleggiate ora dal vicino Egitto. Tripoli, capitale lontana e centro di gestione dei proventi petroliferi, è considerata dal generale Khalifa Haftar in mano a “terroristi” e a milizie islamiche legate al mondo dei Fratelli musulmani. Il governo internazionalmente riconosciuto di Fayez al-Serraj, di fatto, è un’eredità della stagione obamiana di supporto alle forze popolari delle cosiddette “primavere arabe” per rovesciare i regimi autoritari di questa regione, in una stagione che aveva portato la Fratellanza musulmana al potere in paesi come l’Egitto e la Tunisia. Con la fine del governo Morsi al Cairo e il ritiro degli americani dal vespaio libico – in conseguenza dell’attacco al consolato di Bengasi e della morte di quattro americani, tra cui l’ambasciatore Chris Stevens, avvenuto nel settembre 2012 – Serraj si ritrovava sostenuto oltre che dall’Italia (in difesa del proprio interesse nazionale, massicciamente presente nel paese con l’Eni), dal Qatar e dalla Turchia: e quindi, per il gioco delle controalleanze, avversato dall’Egitto del generale Abdel Fatah al Sisi, l’Arabia Saudita (principale alleato americano nella regione) ed Emirati, Francia e Russia. La campagna scatenata nella primavera 2019, per la conquista da parte di Haftar della Libia occidentale e di Tripoli, sembra aver ora il suo reale punto di arrivo: arrivare a una tregua e una trattativa da posizioni di forza, in cui controlla l’intero territorio libico ad eccezione di Tripoli. La Turchia di Erdogan, a favore di Tripoli, e la Russia di Putin, di supporto a Bengasi, possono ora patrocinare un accordo di interessi territoriali del complesso quadro libico. L’Italia e la Francia, le due principali potenze europee impegnate nella regione, sembrano svolgere il ruolo di “secondari” comprimari: l’Unione Europea, vera assente della partita, affida di fatto sempre di più ai governi nazionali la gestione delle emergenze geopolitiche esterne ai propri confini. Roma e Parigi tenteranno così, affidandosi alle buone relazioni con Ankara e Mosca, di garantirsi le quote di energia e contenzione dei migranti mantenute finora sul campo. Come nel caso della Siria, il campo minato libico rivela l’irrilevanza dei giocatori occidentali sulla scacchiera mediterranea.



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