Il parlamento dell’Iraq, mentre i legislatori cantavano slogan contro l’America, ha votato per terminare l’accordo di sicurezza con gli Stati Uniti e la Coalizione internazionale anti-Is, e conseguentemente richiedere il ritiro di gran parte delle truppe straniere dal paese e impedire l’uso dello spazio aereo iracheno. Era una mossa di cui da tempo si parlava (la notizia dei movimenti politici per arrivare al voto circola dal 30 dicembre dello scorso anno, ma da mesi il blocco filo-Teheran chiedeva questo provvedimento). Adesso arriva sull’onda nazionalista irachena come diretta conseguenza del raid americano in cui è stato ucciso Qassem Soleimani.
Una riposta politica durissima, veicolata da Teheran: tanto che i partiti sciiti hanno votato in blocco, mentre i curdi si sono astenuti, sebbene i legislatori riuniti erano appena 170 su 328 — 158 parlamentari non hanno partecipato alla riunione per protesta in quanto contrari. L’Iran ha molto potere all’interno dell’Iraq, tenendo a sé — con il controllo sia economico che ideologico — una serie di milizie che hanno infiltrato il tessuto sociale iracheno ed esprimono anche rappresentati (e forze) politici. E il governo iracheno è da sempre su una doppia linea: da una parte è un alleato e interlocutore americano di primo livello, ospitando soldati Usa in diverse basi (che hanno valore counter-terrorism soprattutto) e un’ambasciata fortezza dall’enorme peso politico regionale; dall’altro ha rapporti economici, ideologici e politico-geopolitici con Teheran, tutore internazionale dei gruppi sciiti.
Il premier Adel Abdul Mahdi — che ieri era presente, commosso, al requirem pubblico di Soleimani — ha detto che gli iracheni non saranno più in grado di proteggere le truppe internazionali in Iraq da potenziali attacchi iraniani di rappresaglia. Era stato lui a sollecitare il voto parlamentare. Mahdi, intervenendo al dibattito odierno, ha ricordato che tecnicamente l’accordo di cooperazione con gli Usa potrebbe essere interrotto già dalla decisone favorevole espressa dal Consiglio ministeriale di sicurezza nazionale, ma lui ha chiesto che fosse l’assise a discuterne. Poi ha criticato l’atteggiamento di Donald Trump, che prima lo ha “chiamato per chiedere protezione all’ambasciata” – quando era finita sotto assedio da parte di miliziani, una settimana fa – però poi non gli ha comunicato che truppe di rinforzo aviotrasportate stavano entrando nel paese. Il premier ha ricordato che Soleimani la mattina del giorno in cui è stato ucciso avrebbe dovuto incontrarlo per portargli un messaggio che Teheran intendeva far arrivare a Riad in risposta a una richiesta di de-escalation generale che i sauditi avevano passato agli iraniani tramite gli iracheni.
Ora sarà il premier a dover decidere se implementare il voto parlamentare — non vincolante per il governo — con un provvedimento esecutivo l, e interrompere parte della richiesta di assistenza che sei anni fa il governo iracheno aveva avanzato a Washington e alleati (tra cui l’Italia). Breve flashback: erano i periodi in cui Baghdad aveva bisogno di aiuto militare nella lotta alla campagna di conquista che lo Stato islamico aveva lanciato sul paese — che è stata soppressa da un mix estemporaneo di forze armate occidentali (che hanno fornito soprattutto una copertura aerea altamente qualificata e dagli effetti formidabili, oltre che assistenza alle truppe irachene), unità irachene addestrate dagli occidentali, e gruppi locali mobilitati dall’Iran (spesso tenuti a distanza dalle città liberate per via del settarismo che li contraddistingue).
Si tratta appunto di quelle milizie che stanno creando problemi agli Usa, che nel corso della guerra all’Is si sono compattate sotto l’ombrello dal nome da marketing politico, Forze di mobilitazione popolare (il cui vice-capo, Abu Mahdi Al-Mohandis, è stato ucciso nel raid con Soleimani), e adesso hanno ottenuto ancora più potere. Le stesse contro cui negli ultimi due mesi sono insorti i cittadini iracheni chiedendo sovranità e indipendenza dai piani iraniani di diffusione regionale, progetti che fanno delle milizie un vettore iraniano che all’interno del paese ha costruito un sistema mafioso di controllo sul potere. Proteste che le milizie stesse hanno soppresso nel sangue, seguendo le indicazioni dell’Iran. Azioni davanti a cui Mahdi ha dato le dimissioni – sebbene sia stato bloccato dall’intervento diretto di Soleimani.
L’implementazione del voto farebbe perdere agli Usa la grossa opportunità di avere un ruolo centrale per costruire un Iraq senza Iran, come chiedono i manifestanti appunto, fa notare Ilan Goldenberg, direttore dell’ufficio Middle East Security del CNAS, che ricorda come gli Usa, pur non essendo il player principale in Iraq, potevano cogliere l’occasione per sposare con efficacia le proteste contro settarismo e corruzione di cui sono emblema le milizie filo-iraniano. Ora, dice Goldenberg, “la nostra ossessione per lo scontro con l’Iran ha buttato questa opportunità nel water. Questo sarà negativo per l’influenza degli Stati Uniti. Ma peggio, sarà un male per i manifestanti e i riformatori iracheni e per il futuro dell’Iraq”.
Hassan Hassan, iracheno, uno dei più esperti analisti del paese, segnale che la richiesta parlamentare è accompagnata da una dichiarazione in punti di Moqtada al Sadr, chierico/politico che nel 2003 (ai tempi dell’occupazione) aveva formato l’Esercito del Mahdi per combattere gli americani. Sadr, movimentista e populista di successo, è stato negli ultimi tempi critico con la presenza iraniana in Iraq per ragioni di sovranità, ma adesso ha annunciato di voler riattivare la sua milizia dopo l’uccisione di Soleimani. Oggi ha diffuso il suo piano ambizioso per raggruppare sotto il nome “Legioni della Resistenza Internazionale” tutti i proxy iraniani nella regione. Chiave del raggruppamento: l’anti-americanismo. “Un’idea folle” per Hassan, che sottolinea come Washington non potrà accettare nemmeno le richieste dei parlamentari iracheni, in quanto la presenza americana ha valore strategico sull’Iran (e Russia e Cina nella regione) e tattico contro il terrorismo.
C’è anche uno sviluppo di carattere più ampio. Davanti alla mossa irachena, Michael Tanchum, del think tank austriaco Aeis, fa notare che gli Stati Uniti per il rafforzamento contro l’Iran stanno sfruttando in modo inteso la logistica permessa dalle basi turche. In Iraq ci sono 5mila soldati americani, disposti in 35 basi attive: altri 3500 stanno entrando nel paese in questi giorni. Secondo l’analista potrebbe esserci una sovrapposizione tra i due dossier caldi del momento, l’Iran e la Libia. Se in qualche modo saranno tagliati fuori dall’Iraq, gli americani avranno ancora di più la necessità della sponda turca per muovere gli assetti dentro e fuori dal Medio Oriente: qualcosa che suggerisce che gli americani non freneranno troppo l’iniziativa libica con cui la Turchia intende aiutare militarmente il governo di Tripoli contro l’offensiva del capo miliziano della Cirenaica, Khalifa Haftar.
Un commento sul voto anche dall’Italia: Adolfo Urso di FdI sottolinea che la decisione di mandare fuori dall’Iraq le truppe straniere riguarda anche l’Itali, che ha degli addestratori e i team composito di operazioni speciali sul suolo iracheno. “La risoluzione […] riguarda di fatto anche la presenza dei nostri militari. È il momento delle scelte importanti, serve responsabilità e massima unità”, scrive Urso su Twitter. La Nato, che nel 2018 ha avviato una missione per addestrare le truppe irachena a tecnica anti-terrorismo già sofisticate, ha annunciato la sospensione dei training. Domani pomeriggio il segretario Jens Stoltenberg dirigerà una riunione di emergenza per gestire la situazione.