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Giappone, Usa e Medio Oriente. Ecco tutte le connessioni geopolitiche

Se si volesse guardare al modello di collaborazione su cui Donald Trump vorrebbe si basassero i rapporti tra Stati Uniti e Paesi amici, c’è un Paese che più di tutti gli altri dovrebbe attirare la nostra attenzione: il Giappone.

Tokyo condivide con gli Usa due dossier fondamentali. Uno ha una dimensione più classica, il Pacifico, con le dinamiche di confronto e contrasto all’egemonia cinese, su quadranti regionali che vanno dal Mar Cinese alla crisi nordcoreana e toccano chiaramente tutta la sfera commerciale asiatica. L’altro grande tema che i giapponesi condividono con gli Stati Unti è la geopolitica mediorientale.

“Il Giappone è un sistema di isole che ha sempre dovuto dipendere da altri per l’approvvigionamento di lng e petrolio. E dunque, essendo un grande acquirente, guarda da sempre con molta attenzione ciò che succede nella regione del Golfo Persico”, spiega a Formiche.net Francesco Galietti, analista indipendente di rischio politico-regolatorio e fondatore di Policy Sonar. “Il desk del ministero degli Esteri che Tokyo dedica al Medio Oriente è imponente, le loro ambasciate nei Paesi della regione sono molto efficienti, le relazioni curate da diplomatici coi fiocchi”, aggiunge.

È un’esigenza, spiega Galietti, dettata molto da quegli interessi energetici, dai legami con i sauditi e con gli omaniti, e da un rapporto con l’Iran: “In Iran ci sono, e sono considerati attori molto seri e affidabili, movimentano merci attenti a non muoversi in violazione dei sistemi sanzionatori internazionali”.

”La sua neutralità in conflitti religiosi che coinvolgono l’Islam, e gli stretti legami con Washington, permettono a Tokyo di ricoprire un ruolo speciale come mediatore”, aggiunge Andrea Fischetti, ricercatore dell’Università di Tokyo, esperto in politica internazionale dell’Asia orientale. Nel 2017 era stato l’allora ministro degli Esteri, Taro Kono, a dire che il Giappone può dialogare apertamente con gli Stati Uniti e allo stesso tempo assumere un ruolo politico più centrale nella regione.

Il 27 dicembre dello scorso anno, il governo giapponese ha approvato uno schieramento marittimo (per ora di dimensioni modeste) che nei giorni successivi è arrivato nell’area di operatività prevista dal mandato: Golfo dell’Oman e stretto di Bab al Mandan (tra Gibuti e Yemen). Nel giugno 2019, una petroliera usata da una società giapponese che transitava in quelle acque era stata attaccata. “Con l’attacco alle petroliere giapponesi nel golfo dell’Oman, che secondo gli Stati Uniti è stato organizzato dagli iraniani, la situazione si è complicata. Il Giappone infatti — aggiunge Fischetti — è fortemente dipendente dall’importazione di petrolio mediorientale, e come anche dimostrato dalla recente approvazione della missione di ricerca ed intelligence-gathering delle Forze di autodifesa  giapponesi, Tokyo è disposto ad operare ai limiti della Costituzione pur di difendere i propri interessi nazionali”.

L’amministrazione Trump quest’estate ha chiesto di suddividere il carico del controllo di quelle rotte marittime nevralgiche per il traffico di prodotti energetici, coinvolgendo soprattutto quelli più interessati: il Giappone è tra questi, con il 73 per cento di greggio importato dal Golfo. In pieno stile trumpiano, per scrollarsi di dosso un impegno oneroso, gli Usa sfruttavano come leva la serie di azioni di sabotaggio compiute dall’Iran — per fare pressione sull’accordo nucleare Jcpoa — e culminate con l’attacco enorme ai due impianti di produzione della Saudi Aramco a settembre.

“Il Giappone è uno di quei Paesi che ha ancora la capacità di lettura geopolitica delle carte mondiali”, aggiunge Galietti, e anche a questo si deve la creazione della Free and Open Indo Pacific Strategy, Foip una sorta di costrutto geostrategico che connette Giappone, Stati Uniti, India, Australia con le nazioni dell’Asean, dell’Ue e del Medio Oriente. Un quadro che si oppone alla Belt&Road Initiative cinese: “Se usassimo la metafora della morra cinese, la Bri è la carta e il Foip la forbice, formata da nazioni democratiche contro gli autoritarismi che costituiscono l’ossatura della Nuova Via della Seta”, dice Galietti.

Sebbene Trump volesse un impegno più diretto su Hormuz – il lineamento geografico che strozza il Golfo Persico tra Emirati Arabi e Iran, e che rappresenta la parte più sensibile del quadrante – e il Giappone s’è disposto più a sud, nella zona dove ha sentito i propri interessi intaccati, “Tokyo è perfettamente integrata e coordinata col quadro navale anglo-americano”, continua l’analista, che aggiunge: “E non sarei stupito se prossimamente tra i cinque occhi del 5Eyes ne uscisse un sesto a mandorla”.

Il riferimento è all’alleanza di intelligence che costituisce l’ossatura del mondo anglosassone, il 5Eyes appunto, che integra Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda: nei mesi scorsi, sul Japan Times, era apparso un articolo che faceva riferimento alla possibilità di ampliare il sistema di condivisioni di informazioni al Giappone. Un dibattito che è in corso.

“Non dimentichiamo a proposito del sistema Foip che è in potenziale continuità con un interesse quadro della Nato, che sta pensando di allungare lo sguardo ancora più a Est (la proiezione classica è la Russia, ma Galietti si riferisce alla Cina, che nell’ultimo vertice dell’Alleanza è stata definita tra i rischi sistemici con cui confrontarsi., ndr)”. È importante questo aspetto, secondo l’analista italiano, perché “nel ridisegno complessivo globale, il ruolo del Giappone ha un valore per chi crede ancora nella Nato come in un moltiplicatore di forza”.

 

 

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