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Il 2020 del clima tra conflitto e cooperazione. Il punto di Clini

Il 2019 del cambiamento climatico è stato l’anno di Greta e dei milioni di giovani nelle piazze di tutto il mondo. Greta è stata il catalizzatore di una mobilitazione di massa che per la prima volta ha rappresentato alla politica ed alle istituzioni di tutti i paesi l’ansia delle nuove generazioni per il futuro del pianeta. È stata ed è certamente un’imponente e ben riuscita operazione di comunicazione, ma tutte le critiche e le perplessità non possono cancellare l’evidente gap tra la capacità della comunità internazionale di adottare misure adeguate e l’emergenza climatica.

Emergenza climatica ben rappresentata dai dati della NOAA, l’Agenzia Usa per gli oceani e l’atmosfera che ha certificato l’aumento delle emissioni di carbonio e della concentrazione di CO2 in atmosfera a livelli oltre la “soglia di rischio”, i livelli record raggiunti dalla temperatura media del pianeta dall’inizio del 900, l’intensificazione degli eventi climatici estremi e della variabilità climatica in tutti i continenti.

Mentre il fallimento della Conferenza sul Clima (COP 25) di Madrid ha messo in chiara evidenza la difficoltà della comunità internazionale a mettere nero su bianco impegni vincolanti per la decarbonizzazione dell’economia globale. La COP 25 ha riproposto il conflitto – che sembrava superato a Parigi nel 2015 – tra le economie sviluppate e quelle emergenti e in via di sviluppo. In verità l’accordo di Parigi era stato il risultato di un’operazione diplomatica che aveva salvaguardato la convergenza tra Usa, Cina ed Europa sulle prospettive positive della globalizzazione, con un’evidente forzatura da parte di Obama che aveva sottoscritto l’accordo senza sottoporlo alla approvazione del Senato Usa. La decisione di Trump di non ratificare l’accordo ha riaperto i motivi di conflitto che erano stati nascosti sotto la coperta di Parigi. Conflitti che si trascinano da molti anni e che ruotano attorno alla decisione di ripartire gli oneri di riduzione delle emissioni tra le principali economie, ovvero alle scelte di politica energetica che devono essere adottate dai singoli paesi per sostenere la crescita contestualmente alla decarbonizzazione dell’economia.

Le due “facce” dei dati sulle emissioni di CO2 di Usa da un lato, e Cina e India, dall’altro spiegano bene questo conflitto.

Se consideriamo le emissioni globali, da oltre 10 anni la Cina ha superato quelle degli Usa ed oggi contribuisce al 30% circa. L’India contribuisce per il 7%, ed è prevista una crescita costante delle emissioni fino al raddoppio entro il 2030. La quota più importante delle emissioni di questi due paesi è determinata dall’uso del carbone per la produzione di energia elettrica e termica, nonostante che la Cina sia il paese che ha realizzato la maggiore crescita nell’impiego delle fonti rinnovabili con investimenti superiori di oltre il doppio degli Usa. Gli Usa contribuiscono oggi al 16% delle emissioni.

Ma se vengono considerate le emissioni pro-capite, che sono un indicatore dell’intensità di carbonio e dello sviluppo economico, la situazione è ribaltata. Rispetto alla Cina, le emissioni pro-capite degli Usa sono più del doppio mentre rispetto all’India sono superiori di circa 10 volte. Le emissioni pro-capite spiegano molto bene la distanza in termini di sviluppo economico e benessere individuale tra gli Stati Uniti e le due grandi economie asiatiche.

Il confronto tra queste due valutazioni delle emissioni di CO2 indica in modo chiaro che se è una evidente priorità la riduzione delle emissioni in Cina e in India, è dall’altra parte evidente che queste due grandi economie ancora in via di sviluppo possono raggiungere l’obiettivo solo attraverso una imponente ristrutturazione del sistema energetico che tuttavia non può mettere a rischio la crescita dei due paesi.

Ma è possibile immaginare che per la protezione del clima globale Cina e India chiudano le centrali a carbone senza avere alternative disponibili e sostenibili per le proprie economie, con la prospettiva concreta di precipitare di nuovo nella povertà? In altri termini, la protezione del clima globale richiede un grande impegno internazionale per sostenere le politiche di decarbonizzazione che la Cina, e in parte l’India, hanno già avviato ma che non possono essere pienamente efficaci senza una concreta cooperazione internazionale politica e tecnologica.

Ma il supporto internazionale alla decarbonizzazione di Cina e India avrebbe l’effetto di accelerare la modernizzazione delle due economie con possibili conseguenze negative sulla competitività delle economie più sviluppate. È evidente che la protezione del clima globale si intreccia con la complessità delle “guerre commerciali” e della crescente conflittualità economica e politica a livello internazionale, e di conseguenza nessuna COP può avere risultati positivi se non ci sarà l’impegno delle grandi economie, sviluppate e emergenti, per costruire un quadro di relazioni internazionali diverso da quello attuale basato sulla reciprocità degli impegni e sulla cooperazione non competitiva. Sembra un auspicio ingenuo e fuori dalla realtà, ma purtroppo l’emergenza climatica non lascia margini a soluzioni diverse. A meno che qualche dottor Stranamore non pensi che la crisi climatica sia una buona occasione per eliminare dalla competizione internazionale le economie dei paesi emergenti molto vulnerabili ed esposti agli effetti degli eventi climatici estremi.

Purtroppo per Stranamore e i suoi adepti, il cambiamento climatico non risparmia e non risparmierà chi si illude di chiudersi in fortezze sicure.

In questa situazione difficile e pericolosa, il 2019 si è chiuso con l’indicazione positiva del “Green New Deal” europeo, che consolida il trend dell’Europa verso la decarbonizzazione dell’economia con l’obiettivo di ridurre del 50% le emissioni entro il 2030 e di raggiungere la “neutralità climatica” entro il 2050.

L’Europa ha già raggiunto risultati significativi, che sono ben rappresentati da una percentuale sulle emissioni globali attorno al 9% ed emissioni pro-capite inferiori a quelle della Cina e ovviamente degli Usa: questo dato è l’effetto sia di una progressiva dissociazione (“decoupling”) dei consumi energetici dal Prodotto interno lordo sia del ruolo crescente nell’economia europea delle fonti rinnovabili combinato all’impiego dell’energia nucleare e delle fonti energetiche a basso contenuto di carbonio.

Il “Green New Deal” è un impegnativo e innovativo programma di politica economica a medio (2030) e lungo (2050) termine che “internalizza” (mainstreaming) l’obiettivo della sostenibilità e della decarbonizzazione in tutte le politiche di settore con la previsione di regole e misure finalizzate:

  • al pieno impiego delle soluzioni a basso contenuto di carbonio già disponibili,
  • alla innovazione delle tecnologie nella produzione-distribuzione e usi finali dell’ energia,
  • alla trasformazione delle attività industriali e dei modelli di consumo verso l’economia circolare,
  • a sistemi di fiscalità europei per spostare la tassazione dal lavoro al degrado ambientale ed all’impiego delle risorse naturali,
  • alla istituzione di fondi pubblici e alla facilitazione di fondi privati per la decarbonizzazione con la contestuale revisione della missione della Banca Europea degli Investimenti,
  • all’obbligo degli Stati Membri di orientare i bilanci annuali verso lo sviluppo sostenibile,
  • al rafforzamento della cooperazione economica e tecnologica internazionale per la decarbonizzazione dell’economia globale.

Il programma, che prevede investimenti aggiuntivi annuali nel periodo 2020-2030 pari a 260 miliardi €, è un volano straordinario sia per la modernizzazione e digitalizzazione “sostenibile” del sistema produttivo europeo, sia per associare la crescita economica dell’Europa alla creazione di nuove imprese e nuovi lavori. Il “Green New Deal”, per quanto disegnato sulla realtà europea, può essere la base per politiche coordinate con le altre economie sviluppate, come Usa, Canada e Giappone.

Nello stesso tempo il “Green New Deal” ha molti punti di convergenza sia con le politiche già adottate dalla Cina, sia con il progetto per la “Global Energy Interconnection” lanciato dal presidente Xi e finalizzato a valorizzare le risorse energetiche rinnovabili del pianeta.

Il Summit Europa-Cina sul clima, che si terrà a Lipsia nel prossimo settembre, sarà l’occasione per verificare la fattibilità di una piattaforma comune per delineare un modello di reciprocità e cooperazione non competitiva per la decarbonizzazione dell’economia globale.

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