In alcune zone della Libia i blackout elettrici sono da tempo una normalità, ma in questi giorni sono ripresi con più frequenza. È un primo effetto della crisi petrolifera innescata attraverso i clan tribali dal signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar. L’ordine iniziale è arrivato sabato 18 gennaio, e l’operazione è proseguita anche il giorno seguente, mentre a Berlino i leader del mondo si incontravano per proclamare la tregua libica.
In realtà i combattimenti continuano, sebbene a sprazzi. E poi in più c’è la guerra nella guerra che Haftar ha avviato chiudendo gli oleodotti e i porti per l’esportazione. Le produzioni energetiche sono il cuore economico della Libia: sono gestite dalla National oil corporation, Noc, e i proventi servono a finanziare il Paese (entrambi i lati, nonostante la guerra). Attualmente le produzioni sono scese a 400mila barili giornalieri (dato del 22/01), mentre prima del blocco erano arrivate a toccare gli 1,2milioni (livelli storici). Nel giro di poche ore scenderanno a 70mila – il “collasso” peggiore dalla caduta del rais Gheddafi, dice il Financial Times. Secondo diverse analisi, ogni giorno di blocco costa ai libici tra i 50 e i 70 milioni di dollari. Moltissimo per un Paese in crisi.
E gli effetti stanno ricadendo quasi unicamente sui libici, risentendosi già subito su alcuni beni di consumo. La guerra del petrolio è un metodo per moltiplicare gli effetti dell’assedio a Tripoli che dura da dieci mesi. Chiaramente ne risentono anche le compagnie internazionali, come l’italiana Eni (che opera nell’ovest e nel sud del paese), ma in modo relativo spiegava la Reuters, perché siamo in una fase di prezzi bassi stabili, connessi alle eccedenze produttive accumulate. Nei giorni scorsi comunque alcuni paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno chiesto la riapertura dei pozzi, ma Haftar non ha ascoltato. D’altronde le richieste erano uscite sotto forma di condanna blanda in cui non si faceva mai il suo nome come responsabile. La Francia, che spalleggia Haftar, due giorni fa ha boicottato una più severa risoluzione Ue, a chi aveva dato avallo anche Washington.
A questo punto perché il capo miliziano della Cirenaica dovrebbe fermarsi? E infatti ieri ha alzato di nuovo il tiro. Il suo portavoce ha dichiarato una no-fly zone su Tripoli che dovrebbe includere anche i volo civili. L’ha fatto mentre le forze haftariane sparavano l’ennesima salva di artiglieria contro le piste dell’aeroporto Mitiga, che è l’unico nel paese che le compagnie internazionali utilizzano. È una minaccia più che un decreto esecutivo, zeppa di propaganda. È altamente improbabile che decida di abbattere un volo con dozzine di civili a bordo, perché a quel punto si spingerebbe fin troppo oltre. Però Haftar sa che in questo momento può schiacciare l’acceleratore perché da Berlino è uscito rafforzato.
Per esempio: la riconferma all’embargo sulle armi potrebbe essere garantita da una missione navale dell’Ue, ma Haftar riceve aiuti attraverso aerei che dagli Emirati Arabi fanno scalo nelle basi egiziane e giordane e poi arrivano a Bengasi, in Cirenaica. Gli osservatori che seguono i voli tramite i transponder degli aerei tracciati da siti open-source ne registrano 22 dal 12 gennaio a ieri. E a volte per la supply line viene sfruttato il confine terrestre, lungo e lasco, con l’Egitto. Anche se in questa fase il Cairo sta leggermente alleggerendo il proprio sostegno, fornisce lo stesso il supporto logistico con cui gli emiratini finanziano la guerra dall’Est.
A risentire di più dell’embargo marittimo saranno probabilmente le forze che difendono Tripoli, che invece ricevono armi tramite navi che partono dalla Turchia. Sebbene anche in questo caso arrivino comunque anche aerei da trasporto carichi di apparecchiature anti-aeree. Ci sono stati anche alcuni sospetti voli passeggeri, che con ogni probabilità hanno trasportato i ribelli turcomanni che Ankara sta spingendo a spostarsi dalla guerra (persa) anti-assadista verso il proprio fronte in Libia.