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A che punto è lo scontro tra Iran e Usa. L’analisi di Valori

Nella notte dell’8 gennaio, ha avuto inizio l’operazione “Soleimani martire”. Il capo della Brigata Al Quds dei Pasdaran era morto la notte del 3 gennaio.

Alcuni missili iraniani hanno colpito due basi irachene, Ayan Al Asad e Erbil, nell’area curda. Qui a Erbil erano presenti anche truppe italiane, che si sono nascoste in un bunker.

Curdi che sono obiettivo, quindi, per Teheran, in quanto alleati degli Usa e nemici, almeno all’inizio, del regime di Assad.

Le fonti iraniane hanno riferito un numero di vittime Usa di almeno 80, una cifra smentita prima dagli stessi Usa che poi dallo stesso ministro degli Esteri iraniano Mohammed Javad Zarif, che ha poi dichiarato, dopo i primi numeri, che il governo di Teheran non sa quante siano state le vittime del “nemico”.

Anzi, segnale importante di psywar, lo stesso Zarif ha detto di non sapere di che nazionalità siano i caduti a causa dell’attacco missilistico iraniano.

L’attacco è stato attuato dopo la mezzanotte, per ricalcare i tempi e i modi dell’assassinio mirato di Qasem Soleimani, tema, questo, essenziale nella teoria della guerra sciita.

L’Iran avrebbe lanciato in ogni caso almeno 12 missili balistici a breve-medio raggio contro gruppi di militari Usa, secondo la regola del qisaas, la “vendetta del sangue”, che segue i versetti 178-179 della Sura Al Baqarah: “Libero per libero, schiavo per schiavo, donna per donna”. Ovvero, sangue per sangue, possibilmente nello stesso modo e forma della prima offesa.

Secondo i dirigenti di Teheran, l’attacco missilistico è una “misura proporzionata” all’azione degli Usa contro Soleimani. Sempre secondo le fonti iraniane, quindi, l’operazione “Soleimani martire” dovrebbe essere oggi conclusa ma, non a caso, per altre fonti provenienti della Guardia della Rivoluzione, i Pasdaran, ci sono ancora ben 104 obiettivi possibili, tra Usa e Europa e Paesi sunniti.

Negli Usa, quindi, e nei territori degli alleati europei di Washington che sono sotto osservazione da parte dell’Iran, e che possono essere colpiti in qualsiasi momento.

È il probabile inizio di una guerra asimmetrica tra Iran e Usa, quindi, che polarizzerà buona parte del Medio Oriente e che sarà sempre più incontrollabile, man mano che la smilitarizzazione americana attuale del Grande Medio Oriente procederà.

Inoltre, questa operazione per vendicare, secondo il qisaas, l’assassinio mirato di Qasem Soleimani ha implicato l’uso solo di una piccola parte degli apparati missilistici iraniani, il che implica, nel “sottotesto” di Teheran, l’innesco di risposta contro attacchi Usa sempre più virulenti e sempre meno proporzionati.

Se gli attacchi americani saranno progressivi e significativi, l’Iran avrà una base di sostegno popolare in tutto il Medio Oriente, dal quale gli Usa saranno a quel momento ormai fuori, e allora potrà arrivare l’innesco di una guerra regionale vera e propria tra l’Iran e gli alleati arabi e ebrei degli Usa, ovvero il sogno dell’Imam Qomeini, che vedeva lo scontro finale tra i “due satana” e l’Iran “sacro”.

Dopo l’attacco missilistico, poi, l’Imam Khamenei ha parlato di uno “schiaffo in faccia” agli Usa, visto che l’obiettivo primario, malgrado le tentazioni di ritiro di Trump, è quello di costringere gli americani al ritiro rapido e completo da tutta la regione mediorientale, ma oggi in Iraq ci sono 5000 soldati Usa, più altri 10.000 in arrivo.

Ora, nella prospettiva, probabile, di uno scontro aperto tra Usa e Iran sciita, ci sono alcuni elementi tecnico-militari da osservare.

Gli Usa possono annullare, nel giro di 48 ore, la marina e l’aviazione iraniana.

Un conflitto pieno, vero e proprio, non conviene a nessuno dei due attori strategici: gli americani colpirebbero certamente obiettivi primari dentro il territorio di Teheran, con danni incalcolabili, ma è certo che anche i soldati Usa farebbero molta fatica a penetrare il territorio di Teheran, con perdite rapidamente insostenibili.

È ovvio che questa politica di logoramento tra l’Iran e Washington ha una valenza geopolitica mondiale.

L’interesse numero 1 degli Stati Uniti è quello di un depotenziamento dell’Iran come attore regionale e un completo indebolimento della “mezzaluna sciita”, tra Iran, Yemen, Libano, Siria, favorendo direttamente i Paesi sunniti, che non è affatto detto che siano più filo-Usa degli altri.

Ovvio poi che colpire l’Iran voglia dire, nella mente degli strateghi statunitensi, colpire anche la Federazione Russa e la Cina Popolare, che hanno in Teheran il loro più affidabile e importante alleato in Medio Oriente, e non mettiamo qui neanche in questione i trasferimenti petroliferi iraniani verso la Cina o le collaborazioni militari tra Teheran e Mosca.

L’inizio di questa nuova configurazione dello scontro tra i blocchi filo-americani e quelli filo-russi e cinesi, lo possiamo situare nella reazione di Teheran alla rinuncia degli Usa a partecipare al JCPOA, nel 2019.

L’Ue non ha reagito affatto, invece, alla nuova sequenza di sanzioni di Trump contro l’Iran, nate dopo il ritiro Usa dal JCPOA, ovvero dall’accordo sul nucleare iraniano, a cui l’Ue ha pure partecipato.

L’Ue è il convitato di pietra di qualunque accordo.

Le nuove sanzioni Usa hanno colpito l’Iran riducendo le esportazioni petrolifere di almeno 300.000 barili/giorno, con una serie di limitazioni commerciali che nuocciono soprattutto proprio alla Ue. Ma l’amore puerile degli Europei per gli Usa è tale, come spesso accade tra adolescenti, che sostiene ogni offesa.

A questo nuovo assetto geopolitico e economico l’Iran ha deciso di rispondere con una alleanza di fatto con Russia e Cina, ma senza dirette implicazioni militari; e con una tensione, anch’essa calcolata, con le petro-monarchie sunnite.

Le attuali riserve della Banca Centrale iraniana sarebbero di 110 miliardi di dollari, di cui poco più della metà “liquidi”.

Ciò permette almeno due anni di importazioni finanziate dallo Stato, e sono questi due anni il tempo in cui bisogna calcolare le operazioni strategiche e militari di Teheran.

Un’altra variabile che attendono di poter calcolare a Teheran è il 2020, l’anno delle elezioni presidenziali Usa.

La capacità di destabilizzare l’area mediorientale, il reale peso che Teheran scarica sulla bilancia dello scontro contro gli Usa, è il vero atout degli iraniani.

La rete di proxies per danneggiare sistematicamente gli israeliani, come Hamas (rete dei Fratelli Musulmani, ma oggi al soldo di Teheran) Hezb’ollah, organizzazione sciita nata su ordine diretto di Qomeini, infine il Jihad Islamico, altra organizzazione sunnita poi passata sotto l’egida di Teheran.

Una strategia quindi dell’ironia, che ha come significato originario la dissimulazione.

Non dimentichiamo nemmeno il cyberwarfare: il primo attacco cyber iraniano contro gli Usa è stato quello contro un sito del governo statunitense, proprio il giorno dopo la morte di Suleimani.

Poi gli attacchi cyber di Teheran hanno colpito il sito del Federal Depository Library Program, e altri.

In un attacco completo agli Usa, gli iraniani prima opereranno certamente con la cyberwarfare.

Il potenziale della nuova guerra informatica iraniana nasce probabilmente nel 2010, con la scoperta di Stuxnet.

Era, con ogni probabilità, un attacco di origine israeliana, visto che il virus informatico Stuxnet veniva da loro.

È questo il momento in cui l’Iran si aggiorna sul serio nel settore cyberwar.

Da questo momento arriveranno i virus Shamoon, iraniano, che infetterà gravemente nel 2017 la rete informatica delle raffinerie Aramco in Arabia Saudita poi, nel novembre 2019, l’Iran ha messo in disuso le reti personali e aziendali di alcuni operatori, sempre della Saudi Aramco.

L’Iran ha qui sviluppato una specifica possibilità cyber di colpire le infrastrutture critiche, le istituzioni finanziarie, le maggiori aziende manifatturiere, le università.

C’è poi la possibilità, da parte di Teheran, di modificare-falsificare i GPS aerei e marittimi.

Nella gerarchia degli Stati capaci di cyberattack, Gli Usa, la Russia e la Cina sono al 1° livello, ma poi subito dopo viene l’Iran, poi ancora la Corea del Nord.

Per la guerra dei proxies, comunque, l’Iran dispone di due roccaforti maggiori: Beirut, con il potere parcellizzato di Hezbollah, e Damasco.

Ma un’altra prossima tensione tra Teheran e i suoi nemici, sunniti o occidentali, sarà lo stretto di Hormuz, e qui probabilmente i futuri attacchi delle FF.AA. iraniane saranno simultanei con quelli cyber.

La Russia, però, non vuole in alcun modo uno scontro, anche indiretto, tra Usa e Iran.

Per l’Arabia Saudita, inoltre, l’assassinio di Soleimani è, ovviamente, una buona notizia, ma con qualche “se”.

Intanto, un conflitto, anche indiretto, tra Iran e Usa potrebbe bloccare il grande Meeting del G20 di Riyadh, previsto per la fine del 2020.

Poi, la difesa saudita, in caso di guerra Iran-Usa, sarebbe obbligato a usare molte delle risorse altrimenti dedicate al progetto Vision 2030, che è in cima ai pensieri di Mohammed bin Salman.

Infine, le insicurezze finanziarie, già innescatesi con l’assassinio di Soleimani, potrebbero colpire duramente gli interessi sia interni che esteri dei sauditi.

L’insicurezza ha finora, come è facile immaginare, fatto aumentare di molto i premi assicurativi per tutti i trasferimenti di petrolio e gas naturale, il che si riferisce a un valore totale dei petroli trasportati di almeno 1,2 trilioni di dollari.

Si noti però che il Pil degli Stati del Golfo dipende, per tutti, all’80% del petrolio.

Ma, per l’Iran, il suo Pil è solo per il 30% derivante dagli idrocarburi.

L’Arabia Saudita esporta circa 6,5 milioni di barili/giorno, che partono dai porti di Ras Tamura, di Ju’aymah, e dal Porto Industriale Re Fahd di Jubail.

Tutti obiettivi facilmente raggiungibili dalle operazioni iraniane.

L’Iraq, il secondo esportatore mediorientale, e il secondo o talvolta primo nostro fornitore, esporta 3,8 milioni di barili/giorno. Il 90% delle entrate pubbliche irachene.

Esporta attraverso Bassora, e i terminal di Kawr Al’Amiya. Anche qui, le basi iraniane possono colpire con estrema facilità.

Le alternative dei sauditi, iracheni, e di altri minori produttori, possono essere, bypassando i porti che abbiamo citato, i terminali di Rabigh, sulla costa est del Mar Rosso, oppure la pipeline Kirkuk-Ceyhan.

Ecco, questo sarà il quadro generale di un probabile, anche se non certo programmato da Teheran, contrasto militare tra l’Iran e gli Usa.


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