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Israele nel mirino. L’Is cerca spazi tra Trump e palestinesi

Ieri lo Stato islamico ha cercato spazio e attenzione sul dibattito politico internazionale. Il portavoce del gruppo terroristico ha diffuso un messaggio audio di quasi quaranta minuti con cui dichiarava guerra a Israele. Si tratta di una “nuova fase”, ha detto Abu Hamza al Quraishi.

È un nome che val la pena ricordare, perché è una figura con cui potremmo avere a che fare. Negli anni passati, quando il terrorismo fatto stato del Califfo creava proseliti in giro per il mondo, la forza del gruppo era l’intensità della propaganda — unita certamente ai successi oggettivi sul campo. Ora l’IS ha perso la sua statehood sotto i colpi martellanti di una Coalizione composita guidata dagli americani. Non ha più territori da amministrare, ma ha ancora le capacità per organizzare attentati. E questo vale per la Siria e per l’Iraq, cuore califfale, ma anche per la Libia, Egitto, l’Afghanistan e i rischi per attacchi in Occidente restano. Ora tocca a Israele?

Abu Amza dice che il nuovo leader del gruppo, Abu Ibrahim al Hashimi al Quaraishi (anche questo del successore di Abu Bakr al Baghdadi è un nome da tenere a mente), è “determinato” a iniziare questa nuova fase “che è quella di combattere gli ebrei e recuperare ciò che hanno derubato ai musulmani”. “Gli occhi dei soldati del califfato sono ancora dappertutto a Gerusalemme”, dice. Gerusalemme, alla pari di Roma, è un simbolo spesso evocato dai jihadisti e su cui la narrazione del Califfato ha sempre giocato, salvo poi scontrarsi con due fattori. Primo, la preparazione tecnica del paese al counter-terrorism. Secondo, la presenza di gruppi combattenti che sono sempre stati in competizione con l’Is.

Il portavoce del nuovo-califfo dice che nei prossimi giorni ci saranno “grandi attentati” con cui il gruppo intende far saltare quello che a Washington chiamano “l’accordo del secolo”. Ed ecco la dimensione politica (internazionale) delle sue parole. Si parla del piano di pace tra palestinesi e israeliani che oggi dovrebbe essere annunciato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Una delle legacy in politica estera che l’americano intende consegnare in dote agli elettori per chiedere un nuovo mandato alla fine di quest’anno.

“Penso che alla fine lo accetteranno. È molto buono per loro”, ha detto ieri Trump parlando dalla Casa Bianca in cui sono stati ospiti sia Benjamin Netanyahu che Benny Gantz, sfidante del premier per il terzo round delle elezioni, il 2 marzo. Oggi Trump e Netanyahu annunceranno nuovi dettagli al piano che il genero-in-Chief Usa, Jared Kushner, aveva presentato nel giugno scorso durante una conferenza nel Bahrain (lì si parlava soprattutto del lato economico).

Risposta da Ramallah a Trump affidata aMohammad Shtayyeh, leader dell’esecutivo palestinese: la proposta “non costituisce una base per risolvere il conflitto”, viola la legge internazionale e “viene da una parte che ha perso la sua credibilità come onesto mediatore. Noi la rigettiamo”. L’ultima parte è interessante per ricollegarla alla narrazione califfale.

Abu Hamza vuole crearsi spazi. Il gruppo vive solo se ha proseliti. La possibilità di giocare in via mediana contro la proposta americana, tendenzialmente pro-Israele (consentirebbe l’annessione degli insediamenti, e non darebbe modo ai palestinesi di formare un loro esercito e negoziare accordi internazionali), e le posizioni palestinesi. C’è scontento, c’è una situazione generale debole. Abu Mazen ha rifiutato già una proposta di aiuti americani (50 miliardi di dollari se firmano l’intesa).

Potrebbe cedere però? Forse no, ma il solo fatto che qualcuno ci pensi è utile per spingere un certo storytelling. Per gli occhi del Califfo c’è modo per costruire consensi, ossia creare nuovi jihadisti. Per l’Is, poter rivendicare attacco a Tel Aviv o Gerusalemme significherebbe dimostrare a una serie di giovani cresciuto tra disuguaglianze e rancori che il gruppo è l’alternativa per risolvere con le armi quello che i leader palestinesi non riescono a risolvere con la politica. Un modo anche per portarsi in vantaggio rispetto alle organizzazioni locali, come Hamas e Fatah, in passato criticate dal vecchio portavoce del Califfo perché “inquiniate dai negozianti con gli ebrei“ e ormai lontane dalla gente, con a cuore solo i propri interessi.

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