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Italia e Germania insieme per la Libia. Ecco come. Parla Kiesewetter (Cdu)

Roma chiama, Berlino risponde. Se una lezione arriva dalla conferenza internazionale sulla Libia ospitata nella capitale tedesca, è il ritorno della Germania al centro della politica estera europea. L’Italia lo ha accolto con favore, come dimostra la spola diplomatica in corso in queste settimane. In Libia il governo tedesco può fare asse con l’alleato italiano, dice a Formiche.net Roderich Kiesewetter, deputato della Cdu, membro della Commissione Esteri del Bundestag e responsabile per gli Affari esteri del partito, un passato da colonnello nell’esercito tedesco e poi nel quartier generale della Nato in Europa.

A Berlino la Germania è tornata protagonista. Basta?

Dalla conferenza è arrivato un segnale chiaro: gli europei vogliono prendersi il palcoscenico diplomatico, e non lasciare la Libia in mano alle altre potenze che dall’estero muovono le loro pedine. Questo è il bicchiere mezzo pieno.

E quello mezzo vuoto?

Ora i buoni intenti devono essere messi alla prova. Serve una road-map operativa per verificare la credibilità di Turchia, Russia, Egitto, Emirati Arabi. Sono davvero pronti a dislocare le truppe, a bloccare il flusso di armi?

Suona come una domanda retorica…

La prova del nove si avrà al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Non sarei tanto sicuro che possa passare una risoluzione così onnicomprensiva. Se una chance c’è, si deve cercare anche nella compattezza dei Paesi Ue.

Ecco, a proposito. La Francia non ha votato una risoluzione Ue che condanna il blocco della produzione del petrolio da parte di Haftar.

Ci risiamo. La Francia continua a inseguire senza scrupoli i suoi interessi sacrificando la coesione e la credibilità europea. Macron è oggi un ostacolo per il futuro di una Ue credibile ed efficace.

Come ritrovare un filo comune in Libia?

Le conferenze di Palermo e Mosca sono fallite perché al di là dei comunicati è mancata l’azione. Per dar seguito alle conclusioni di Berlino gli Stati europei devono fare due scelte. Compattarsi intorno alla Nato. E assumere una posizione più assertiva nei confronti della Turchia.

L’Ue è stata troppo remissiva con Ankara?

Sì, e bisogna porvi rimedio. Non possiamo più accettare i ricatti di Erdogan. La Turchia è sul punto di lasciare la Nato e la comunità occidentale. Una dittatura che sopprime le opposizioni e la libertà di stampa, e governa un popolo che per più di metà chiede ancora di entrare nell’Ue.

La Germania ha da sempre rapporti stretti con la Turchia. Non è un caso che Erdogan venga a fare lì i comizi elettorali.

Vero, ma ultimamente il governo ha esercitato pressioni per richiedere il rispetto dei diritti umani. Ora serve un passo in più. Un sonoro no alla strategia della massima pressione con cui Erdogan tiene in ostaggio l’Ue minacciando di riversarvi 5 milioni di rifugiati.

La diplomazia italiana cerca una sponda in quella tedesca per muoversi nella crisi libica. La troverà?

Qualcosa si sta muovendo, i contatti con l’ambasciata italiana a Berlino si infittiscono. Per venticinque anni, dal 1990 al 2015, la Germania si è chiusa in se stessa, concentrandosi sulla politica domestica.

Poi?

La crisi migratoria e l’arrivo di migliaia di rifugiati hanno aperto gli occhi: il governo tedesco deve occuparsi della sicurezza europea e supportare i partner sul fianco Sud, a cominciare dall’Italia.

Che è alla guida dell’operazione Sophia, la missione europea di contrasto al traffico di esseri umani. L’Alto rappresentante Ue Borrell ha detto che va rianimata. Concorda?

Certo, purché sia cambiato lo scopo della missione. In questi anni è stata spesso usata per erigere un muro contro i migranti nel Mediterraneo. Se vogliamo rilanciare Sophia facciamolo, ma senza ricorrere a espedienti elettorali. Può essere uno strumento fondamentale. Per sorvegliare le coste e la statualità libica, per addestrare una guardia costiera depurata dalle infiltrazioni di milizie e tribù.

Si parla anche di un intervento Ue, una forza di interposizione. Ci sono le condizioni?

Vedo due sole opzioni. Un invito ufficiale del governo di Serraj o un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il secondo è preferibile, e dovrebbe essere deciso insieme all’Unione africana, da cui non si può più prescindere.


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