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Galleggiare nel presente o guardare al futuro. Le scelte dell’Italia per il nuovo decennio

Siamo entrati nel nuovo decennio con la notizia di fonte Istat che nel 2018 è stato raggiunto il minimo storico di nascite (439.747 contro le 458.151 del 2017, un calo di quasi 150 mila in appena dieci anni). Non certo un buon viatico per il futuro dell’Italia. Che accoppiato alla lettura negli stessi giorni del pamphlet di Luca Ricolfi, “La società signorile di massa” (La nave di Teseo), diventa un pugno ben assestato allo stomaco del più inguaribile degli ottimisti.

La principale tesi del libro è che l’Italia sia l’unico Paese europeo ad avere acquisito tutte e tre le caratteristiche principali di quella che Ricolfi definisce una società signorile di massa: un benessere elevato sempre più orientato verso consumi superflui, un numero di lavoratori largamente inferiore a quello degli inoccupati e un’economia in stagnazione.

I dati esposti da Ricolfi non rappresentano di certo una novità assoluta. Ma la loro sistematizzazione e le raffinate interpretazioni del sociologo torinese (molto spesso condivisibili) tinteggiano un quadro del tutto preoccupante non tanto e non solo sullo stato attuale del Paese ma soprattutto sul suo futuro. Tra le tante relazioni statistiche proposte nel libro, quella forse più sorprendente, perché cambia radicalmente la chiave di lettura vittimistica alla quale siamo abituati, è la forte correlazione positiva tra la percentuale di NEET (i giovani che non lavorano né studiano) e l’eredità attesa, più elevata in Italia che in qualsiasi altro Paese europeo grazie a tre fattori: l’elevato livello di patrimonializzazione delle famiglie, l’alto peso degli anziani sulla popolazione e, come contraltare, la quota ridotta dei giovani (che dunque a parità di ricchezza tramessa per via testamentaria possono attendersi un maggiore lascito pro-capite).

In un’economia che non cresce, aumenta la spinta verso politiche puramente distributive (che tolgono a qualcuno per dare ad altri). Dunque, un cane che si morde la coda. Con la prospettiva concreta che alla lunga della coda (e forse del cane stesso) rimanga ben poco. Non si tratta di un punto di arrivo immediato, certo (e leggendo il libro di Ricolfi viene quasi da rammaricarsene), ma se non si fa nulla quello è il destino con il quale dovremo confrontarci prima o poi. E non potranno salvarci i tanti individui e imprese (ma pur sempre una minoranza) che svolgono al meglio il loro lavoro e in moltissimi casi, per fortuna, rappresentano punte di eccellenza a livello internazionale.

Molte scelte politiche del recente passato e altre pulsioni presenti nell’attuale dibattito sembrano andare purtroppo in questa direzione. Gli esempi più facili da richiamare alla mente sono il reddito di cittadinanza e quota 100, ai quali poter aggiungere la gestione delle tante crisi aziendali, tra le quali spiccano i casi Ilva e Alitalia (non solo da parte dell’attuale governo), e più in generale il richiamo sempre più insistente e ormai indistinto all’intervento pubblico (dalle concessioni autostradali a improbabili banche del Mezzogiorno).

Più in generale sembra essere del tutto assente una visione politica coerente orientata alla crescita, che punti ad espandere la torta prima che a suddividerne le fette. È molto significativo che nel libro di Ricolfi il Paese che si staglia all’esatto opposto dell’Italia, il più lontano possibile dall’essere una società signorile di massa, sia Israele. Cioè la nazione che più di tutte nella regione euromediterranea ha puntato su innovazione e ricerca (bastano due semplici numeri a dimostrarlo: il 4,6% del pil investito in ricerca e sviluppo contro l’1,4% dell’Italia, e i 20 unicorni, cioè startup innovative con valore superiore al miliardo di dollari, contro lo zero assoluto dell’Italia). Eppure, di fronte alle minacce esterne e a un futuro incerto, gli israeliani avrebbero potuto avere meno incentivi di tanti altri Paesi, incluso il nostro, ad investire sul domani piuttosto che a dividersi la torta oggi.

L’Italia non è Israele per tanti motivi (nel bene così come nel male) ma anche per noi si pone in maniera sempre più urgente la necessità di scegliere tra una politica del galleggiamento, che si preoccupa di gestire il presente facendo i conti soprattutto con il passato, tutt’al più con qualche ammuina in direzione del domani, tanto per darsi un tono, e una che punti sul futuro con tutte le energie a disposizione.

Per questo trovo personalmente del tutto deprimente che il dibattito pubblico di queste settimane sulle dimissioni del ministro Fioramonti e sul Piano Innovazione al 2025 del ministro Pisano si sia fermato al piccolo cabotaggio politico, come la possibile nascita di un minigruppo parlamentare più o meno favorevole al capo del governo del momento o l’opportunità o meno di ringraziare nei titoli di coda di un documento, insieme a tante altre, una persona certamente politicamente esposta e con evidenti interessi professionali in aree toccate da quel piano ma che di certo non è, comunque la si pensi, né il Mostro di Loch Ness né Darth Vader. Accanto alle polemiche di giornata o ai gossip dei quali si nutre la narrazione politica quotidiana, mi sarei aspettato riflessioni ben più profonde sul futuro del Paese. Ad esempio, su quante risorse l’Italia vuole destinare rispettivamente a scuola, università e ricerca e soprattutto al modo in cui intende spenderle o a quali politiche dell’innovazione dare priorità e a come realizzarle. Tenendo presente due aspetti fondamentali e peraltro interconnessi (nonché spesso trascurati da una politica con lo sguardo corto): il valore del tempo e la governance.

Si possono infatti prendere le decisioni migliori ma senza i giusti tempi e una messa a terra adeguata il risultato sarà decisamente inferiore alle aspettative. Ecco perché preoccupano i ritardi su alcune scelte fondamentali per imprimere un’accelerazione sul fronte dell’innovazione (tra i più eclatanti, la piena operatività del Fondo Innovazione e il varo della Strategia nazionale sull’intelligenza artificiale). Ritardi che rischiano di accrescere il gap che ci divide dai Paesi più avanzati. Oppure di frustrare il buon lavoro fin qui svolto da governi di diverso colore politico come nel caso dello sviluppo delle reti 5G, altra tecnologia fondamentale, che in assenza di un grosso impegno comune rischia di essere oltremodo frenata da limiti elettromagnetici decisamente restrittivi rispetto alla media europea e da una lenta attuazione della legge sul perimetro di sicurezza cibernetica approvata lo scorso novembre.

Per lo stesso motivo, appare di estremo interesse per un Paese come il nostro il diritto a innovare contenuto nel piano del ministro Pisano e al momento stralciato dal cosiddetto decreto Milleproroghe varato prima della fine dell’anno. Una norma che consentirebbe a chi innova, a determinate condizioni e in un tempo e spazio opportunamente limitati, di essere esentati dal rispetto di leggi potenzialmente ostative pensate in un contesto tecnologico antecedente. Dopodiché, in caso di successo della sperimentazione, si procederebbe a seconda dei casi a una modifica delle norme previgenti o a norme ex novo tali da eliminare per tutti i soggetti potenzialmente interessati i potenziali ostacoli a un’applicazione di massa dell’idea innovativa.

Ma la rilevanza della variabile temporale non è unidirezionale. Talvolta, occorre definire un percorso che riconosca un periodo transitorio sufficientemente lungo. Le imposte ambientali, come la ormai famigerata plastic tax, non sono certo sbagliate di per sé ma certamente lo diventano se non danno il tempo agli operatori economici di prenderne le misure, cambiando i propri comportamenti. Anche perché altrimenti rischiano di essere solo strumenti per fare cassa e dunque di tradire lo scopo con le quali nascono (che dovrebbe essere in primis quello di ridurre le esternalità negative, incentivando le azioni virtuose degli agenti economici). L’importante è che, una volta stabilito un eventuale periodo transitorio, quest’ultimo non venga cambiato serialmente. Soprattutto quando eventuali revisioni successive non siano da attribuire al modificarsi delle condizioni di contesto ma semplicemente all’inerzia delle stesse istituzioni che avrebbero dovuto garantire il rispetto dei termini di legge. Esattamente quello che sta avvenendo con il secondo rinvio in poco più di un anno della scadenza per la fine delle tutele di prezzo nei mercati dell’elettricità e del gas naturale (inizialmente prevista a luglio del 2019, poi spostata di un anno e ora, secondo il testo del decreto Milleproroghe, di un ulteriore anno e mezzo). Ma non è di certo l’unico caso di una norma che fa carta straccia dei rapporti passati, presenti e futuri tra istituzioni e settore privato. E che in parte discende da una governance deficitaria alla base del processo di attuazione delle apposite norme contenute nella legge sulla concorrenza, approvata nell’ormai lontano agosto 2017.

La situazione incresciosa nella quale nell’ultimo anno e mezzo si è trovato e si trova tuttora a lavorare il ministero dello Sviluppo economico, al quale spettava emanare una serie di decreti che si è ben guardato dal produrre, ne è una chiara testimonianza. Peraltro in una struttura che opera già con un personale qualificato estremamente esiguo rispetto alle importanti responsabilità e in costante riduzione a causa dei blocchi al turnover. La riorganizzazione del ministero, con una turnazione incomprensibile dei dirigenti apicali (e diversi abbandoni di rilievo) e un evidente scollamento tra vertice politico e staff dirigenziale e infine, con il secondo governo Conte, la mancata attribuzione delle deleghe ai cinque sottosegretari, che perdura a distanza ormai di molti mesi dalle relative nomine, ha rallentato e in molti casi bloccato i principali dossier di competenza del Ministero.

Per questo, se è da accogliere in teoria positivamente lo spacchettamento del MIUR tra un ministero dell’Istruzione, da una parte, e un ministero dell’Università e Ricerca, dall’altra, rimane una certa preoccupazione sui tempi che saranno necessari perché si arrivi a un’esatta divisione delle competenze e delle relative strutture amministrative.

Sempre sul crinale tra tempi e governance, lascia di stucco il ritardo con il quale, dopo l’infelice caso dell’Autorità dell’energia, (non) si stanno gestendo le nomine dei collegi scaduti prima dell’estate dell’Autorità delle Comunicazioni (AGCOM) e del Garante della Privacy. Peraltro con sgradevoli effetti collaterali come il mancato rinnovo, in coincidenza con lo scadere dell’anno, di figure apicali come quella del segretario generale dell’AGCOM. Quantomeno si sarebbe potuto approfittare del ritardo per rilanciare l’idea, proposta ormai un anno fa da Antonio Nicita di un’Autorità unica sul digitale. Che consentirebbe al nostro Paese di affrontare meglio le nuove sfide poste dall’innovazione.

Certamente non è con il plateale disinteresse verso scadenze così importanti da parte delle istituzioni che si può assicurare quella leale collaborazione all’interno dello stato e tra i diversi livelli di governo ma anche tra settore pubblico e privato, l’unica ricetta di governance di successo che si conosca. Ad esempio per poter contare qualcosa in Europa attraverso posizioni coordinate e condivise con i tanti stakeholder che compongono il sistema Italia. Come sta cercando di fare il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola. O come vorrebbe fare per attrarre investimenti dall’estero, e possibilmente mantenere quelli attuali, il sottosegretario allo Sviluppo economico, Gian Paolo Manzella, attraverso l’istituzione di un comitato pubblico-privato ad hoc. Che come è già avvenuto in alcune regioni e città metropolitane ma con un’ovvia escalation strategica mantenga un livello di dialogo tra istituzioni e grandi investitori tale da gestire le principali criticità e possibilmente prevenirle prima che si incancreniscano, come purtroppo sempre di più sembra avvenire ultimamente.

Forse c‘è qualche barlume di luce nella pronunciata cupezza che contraddistingue l’attuale fase politica italiana. Ma i segnali sono ancora deboli e al momento sporadici, affidati a volontà e bravura di singoli. Condizioni non sufficienti per quella svolta verso la competitività e l’innovazione che auguriamo di cuore all’Italia nel prossimo decennio. Con un ottimismo temperato da una dose di opportuno realismo.

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