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Il sabato nero di Beirut. Perché il Libano rischia di sprofondare

Il Libano sembra sprofondare in una nuova notte mentre la politica nazionale si trastulla con i suoi giochi di potere. Ma perché rischia davvero di sprofondare? Per farsi un’idea occorre tornare un po’ indietro nel tempo, al 2006.

Per Hezbollah fu “la vittoria divina”. Pochi se ne accorsero, visto che il sud del Libano ne uscì devastato. La storia della guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele va ancora scritta, ma forse quella guerra conseguì il risultato desiderato da chi la scatenò: cancellò dall’immaginario collettivo e non solo l’assassinio di Rafiq Hariri.

È stata davvero una vittoria divina per Hezbollah? Di certo non è stata una “vittoria divina” per il Libano, per i libanesi. Ma per la classe politica? Qui c’è un risvolto che andrebbe indagato. Quella guerra privò il Libano della sua centrale elettrica. E il governo decise di non ricostruirla per paura di vedersela distrutta di nuovo, in una sempre possibile nuova guerra. Ci fu anche l’offerta di un prestito praticamente gratuito di tutto il denaro necessario da parte dei Kuwait. Niente da fare. Il governo di unità nazionale, guidato da Saad Hariri, preferì soddisfare il fabbisogno energetico acquisendo la corrente necessaria da gigantesche navi che la passano da allora al Libano. La scelta fu unanime. Risultato: oggi il Libano scopre di avere una bolletta energetica dal rosso spaventoso, 48 miliardi di dollari. Eppure i grandi partiti di governo l’hanno unanimemente scelta e voluta. È per questo che i libanesi a un certo punto, quando la loro valuta ha rischiato di diventare carta straccia e le loro vite ancor più grame, con esercizi e attività produttive che chiudono i battenti a ritmo forsennato, hanno cominciato a dire “via tutti” e “tutti vuol dire tutti”.

La perdita di autorevolezza da parte di Hezbollah, partito che ha fatto innamorare tanti perché si presentava come avanguardia armata della causa araba ma ora coinvolto nella brutta storia dell’energia e nella mattanza siriana di arabi, ha fatto sì che questa specifica “dicendo tutti diciamo proprio tutti”, è parsa rivolta soprattutto a loro.

È arrivata così la crisi di ottobre, le dimissioni del premier Saad Hariri, ritenuto più il coordinatore di un comitato d’affari che un primo ministro, la ricerca di un governo tecnico. La scelta è stata contrastata soprattutto dal partito cristiano del presidente Aoun e dal partito khomeinista di Hassan Nasrallah. Ma la piazza non ha mollato. Così dopo lungo tergiversare dal cilindro di Aoun e di Hezbollah è uscito un primo ministro – che deve essere sunnita, cioè della comunità di Hariri – a loro gradito. Ma la compilazione della lista dei tecnici per formare il governo non riesce ad arrivare alla parola fine. E ancora non ci siamo.

La figura peggiore la stanno facendo i cristiani: sembrano presi nella trappola delle ambizioni presidenziali del potentissimo genero del presidente e ministro degli esteri, Gebran Bassil e del leader di un partitino senza potere ma molto vicino a Bashar al-Assad, il “padrino” giusto per i libanesi che vogliono fare i presidenti, Sleiman Frangieh. La loro guerra sotterranea è finalizzata a mettere persone che non gli facciano ombra (si deve far finta che i nuovi ministri siano tecnici, quindi loro non possono diventare ministri) ma che controllino per loro conto gangli vitali, pezzi importanti della “torta”. Ci sono poi altre alchimie: è molto importante avere o impedire che il proprio rivale abbia un terzo dei ministri, perché in Libano c’è il cosiddetto “terzo bloccante”. Abituati a formare governi di sciiti, sunniti e cristiani si è introdotta questa regola per impedire che una decisione venisse presa contro una comunità.

Ecco che in queste ore emerge una strana idea che sembra dovuta a questo sforzo di evitare che qualcuno abbia il terzo bloccante: unire il ministro della difesa e dell’energia. Dunque un solo titolare per difesa, ministero cruciale per l’oggi, con le piazze che sono in piena ebollizione, ed energia, dicastero che gestisce l’esorbitante spesa energetica.

Quale tecnico può avere questi requisiti è difficile immaginarlo. Avvolti in trame e sottoboschi quelli che ritardano anche la formazione di questo governo nel quale pochi dimostrano di riporre fiducia si sono presi dal patriarca Beshara Rai l’accusa di essere “nemici del Libano”. Perché la situazione è davvero drammatica. I nodi politici dei conflitti regionali convergono quasi tutti in Libano, Paese che potrebbe anche ritrovarsi con una esistenza futura incerta. I libanesi invece potrebbero ritrovarsi ancor peggio, per loro in gioco c’è il presente. L’economia sta già precipitando, i bancomat chiudono, le banche sono ingolfate da file incredibili, è tornato il mercato nero delle valute pregiate, gli scontri con le forze dell’ordine ormai sono numerosissimi e sanguinosi, ieri si è parlato di “sabato nero”. Solo a Beirut nelle ultime ore ci sono stati 400 feriti e 38 arresti.

Una delle migliori figure dell’esecutivo uscente, la titolare del dicastero dell’interno, ha detto che i casseur, i teppisti, non riusciranno a rifare di Beirut un’arena di violenza e sangue. La memoria libanese sa bene cosa con queste parole si intenda dire. Ma l’irresponsabilità della politica non può sparire neanche davanti all’evidenza del teppismo e dei suoi costi per un movimento che ha fatto della non violenza il suo tratto autentico. In gioco c’è la costruzione della Terza Repubblica Libanese, un obiettivo che non può consentire alla piazza di fare passi falsi.

(Foto: Alessandro Balduzzi)

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