“Alla conferenza di Berlino sulla Libia si dovrebbe passare dalla tregua alla stabilizzazione, molto più complessa. Il problema è la debolezza europea e l’accordo tra Turchia e Russia dimostra che bisogna anche mostrare i ‘muscoli’”. Andrea Manciulli, presidente di Europa atlantica, legge gli ultimi eventi sperando in un salto di qualità della politica dell’Ue e sottolinea la necessità di far riflettere la Francia: “L’accordo turco-russo certo non è un vantaggio per Roma e Parigi”.
Visto che la tregua in Libia sembra possibile, con le pressioni russe su Khalifa Haftar, dopo verrà il difficile: in prospettiva su che base si può raggiungere un vero accordo tra le parti?
Haftar ha frenato sull’accordo perché una parte delle forze che lo sostengono, in particolare il blocco salafita (Emirati, Arabia Saudita ed Egitto), non è convinta dell’intesa e credo che in queste ore si cercherà di migliorarla. Da anni l’altra sponda del Mediterraneo è ormai divisa in tre: alla consueta contrapposizione tra sciiti e sunniti si è aggiunta la divisione tra due anime sunnite, una legata ai Paesi del Golfo e l’altra alla Fratellanza musulmana. La tregua ci può essere, ma dev’essere sottoposta alla prova dei fatti perché la Libia è un paese fondato sulle tribù: bisogna vedere come l’accordo sarà vissuto dalle tribù e valutare come reggerà allo scontro tra le due anime sunnite.
Dunque è quest’ultimo il punto centrale: trovare una sintesi tra le anime sunnite.
La parte mancante alla ratifica dell’accordo è questa: l’accordo tra Turchia e Russia va stretto ai Paesi del Golfo che sono tra i principali sostenitori di Haftar.
Se ne parlerà alla conferenza di Berlino, fissata per il 19 gennaio. Secondo lei si raggiungeranno obiettivi concreti?
A Berlino si dovrebbe passare dalla tregua alla stabilizzazione, che è una cosa più seria e complessa. Tuttavia è sempre più evidente che nel Mediterraneo, nella contrapposizione che si è creata non solo sul destino della Libia, ma anche della Siria e di altre realtà, si è aperta una nuova fase nella quale chi è capace di condurre una politica estera non solo teorica, ma anche di presenza e di sostegno, finisce per avere un ruolo più semplice da giocare mettendo purtroppo l’Europa in difficoltà. L’Ue negli anni Novanta aveva inaugurato il cosiddetto “processo di Barcellona” fondato sulla politica e sull’economia che avrebbe dovuto portare nel 2011 all’area di libero scambio nel Mediterraneo. Quel processo è fallito e nel Mediterraneo pesa sempre di più la “muscolatura”.
Si parla di una forza di interposizione europea che dovrebbe confrontarsi non solo con Fayaz al Sarraj e Haftar, ma anche con molte milizie. Secondo logica, si dovrebbe parlare di “peace enforcing” con regole d’ingaggio precise: non è il caso di dare un’occhiata anche al Fezzan, visto che dai confini meridionali possono infiltrarsi terroristi?
L’accordo tra Turchia e Russia è tra i due Stati che negli ultimi mesi hanno sostenuto militarmente i contendenti: la Turchia aiuta la parte dei Fratelli musulmani con il Qatar, Haftar ha un forte sostegno russo oltre a quelli classici. Il vero punto è che oggi l’Europa non ha una vera forza da poter spendere in prima persona né ce l’hanno i singoli Stati. Il fatto che si sia arrivati a un accordo Turchia-Russia, i soli due attori che non hanno problemi a usare la doppia opzione politica e militare, deve farci riflettere. È vero che c’è un problema meridionale della Libia legato al Sahel e proprio per questo bisognerebbe far riflettere la Francia: Parigi è contenta della situazione che si è creata e non fa nessuna autocritica sugli ultimi anni? Si doveva arrivare all’accordo tra Turchia e Russia per constatare l’incapacità di Italia e Francia di dialogare? È forse un vantaggio per questi due Paesi?
L’Italia dovrebbe partecipare militarmente a una eventuale missione europea?
C’è un problema di stabilizzazione, anche legato al terrorismo e dunque al Sahel, che l’Europa deve affrontare seriamente partendo da un dialogo con la Francia, smettendo di farci concorrenza perché stiamo parlando del ruolo politico europeo. Né l’Italia né la Francia possono fare da soli e se vogliamo avere un ruolo dobbiamo compiere un passo in avanti.
Come giudica le mosse del governo italiano?
Ho apprezzato molto il modo di procedere del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che sull’Iraq ha preso la saggia decisione del mantenimento del contingente. Dal punto di vista diplomatico più generale, va chiarita un’agenda basata sull’interesse nazionale.
Si può sperare in un impegno bipartisan?
Ci dovrebbe essere. La situazione è tale che tutti coloro che hanno la cultura istituzionale di anteporre l’interesse del Paese a quello di parte dovrebbero capire che il modo in cui l’Italia si posiziona sullo scacchiere internazionale è determinante a prescindere da chi governi.
Come si inserisce la crisi libica nella più ampia instabilità mediorientale dopo la crisi iraniana?
Da un po’ di tempo l’Occidente ha mostrato una divisione crescente sull’area: se fino agli anni Duemila c’era un univoco interesse sulla questione energetica, il raggiungimento dell’indipendenza energetica degli Stati Uniti con la crescita della loro presenza nell’Oceano Pacifico ha reso l’Occidente molto più fragile nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, facendo crescere altri appetiti. La Russia si sta rafforzando: più flotta, sbocco sul Mar Nero, vicenda siriana, rinnovato rapporto con Israele; la Turchia dimostra un crescente attivismo con la vicenda cipriota per le perforazioni marittime, con la Siria e ora con la Libia mantenendo un forte rapporto con Qatar e Fratelli musulmani; l’Iran ha un ruolo sempre più preponderante nella politica interna irachena così come in Siria. Nello stesso tempo, gli americani hanno altre priorità e l’Europa non ha gli strumenti per giocare la partita. Invece dev’essere regolatrice di ciò che la circonda, altrimenti si va verso il declino dell’Occidente.
L’interruzione dell’addestramento delle forze irachene e dei peshmerga curdi dopo l’attentato a Qasem Soleimani può aiutare l’Isis?
Il terrorismo si sta riorganizzando a prescindere, anzi le tensioni sulla vicenda iraniana e su quella libica rischiano di dare nuova linfa in aggiunta ai movimenti già noti dei foreign fighter tra vari teatri. È il quadro d’insieme che certo non migliora la situazione del terrorismo.