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La Nato è pronta per il futuro, nonostante la Turchia. Il punto del gen. Arpino

Il 2019 dell’Alleanza Atlantica si è condensato nel vertice dei capi di Stato e di governo di Londra di inizio dicembre. Almeno sotto il profilo formale, in quell’occasione la Nato ha conseguito l’obiettivo: un successo non scontato. Infatti, trattandosi di un vertice in cui l’Alleanza ha festeggiato il suo settantesimo anniversario, i guastafeste non sono mancati. Né prima, né dopo. È apparso evidente che il clima non è stato quello spumeggiante che si conviene a una gran festa di compleanno.

Nulla da paragonare al vertice del cinquantesimo anniversario, cui, a fine aprile 1999, per ciascun Paese anche il capo militare della Difesa era presente a Washington assieme al suo ministro. Applausi a non finire a ogni intervento, con particolare enfasi per quelli tributati all’Italia dopo lo speech del nostro presidente del Consiglio, Massimo D’Alema. In quei giorni i bombardamenti della Nato, iniziati nella notte del 24 marzo, erano ancora in atto su Serbia, Montenegro e Kosovo. Tutti i raid partivano da basi italiane, che ospitavano oltre 300 aerei alleati. Come oggi, anche allora avevamo un governo che galleggiava tra delicati equilibri. L’operazione, dopo il fallimento dei colloqui di Rambouillet, era stata ordinata dall’Alleanza, pur in assenza di autorizzazione del Consiglio di sicurezza. L’Italia in quel tempo giocava un ruolo importante.

Ricordo che il collega americano, un ranger tutto d’un pezzo, subito dopo l’intervento mi aveva stretto la mano celiando (cosa che non faceva mai): “Bravissimi, Mario! Ma come avete fatto? Devi spiegarmi, qui dicono che in casa di D’Alema sia comunista perfino il gatto”. Il fatto è che allora la Nato era più piccola, ma forse proprio per questo più coesa e credibile. Ciascun membro ci teneva a dimostrare atlantismo. Non c’era, allora, un aspirante Napoleone che con scarsa eleganza ambisse a sostituirsi all’Alleanza con un futuribile esercito europeo ai suoi ordini. O che con ostentata equidistanza ponesse sullo stesso piano, in termini di minaccia all’Europa, la Federazione russa e gli Stati Uniti d’America. O che, dopo aver stretto accordi con società cantieristiche italiane, inviasse i dossier all’antitrust europea per verificarne la legittimità. Tutto ciò è divisivo, e si potrebbe continuare a lungo. Anche la Turchia, pilastro della Nato, con i suoi aggiornatissimi F-16 schierati a Ghedi in versione da attacco, in Kosovo aveva offerto un valido contributo. La sua struttura era ancora quella voluta da Ataturk per farne un Paese moderno.

Eppure, qualche anno dopo, l’Unione europea salutò con entusiasmo l’avvento del “democratico” Erdogan. Presto i nodi sono venuti al pettine, e proprio in prossimità del vertice di Londra il rifondatore in pectore dell’impero ottomano ha di nuovo cercato di ricattare l’Unione minacciando di inondarla di migranti, usando nel contempo la stessa cortesia anche alla Nato, con la minaccia di non supportare il piano per la difesa degli stati baltici e della Polonia. La contropartita? L’Alleanza avrebbe dovuto dichiarare “terroristi” i curdi siriani che hanno combattuto l’Isis. Questione divisiva, come l’acquisto dei missili russi, non integrabili nel sistema di difesa aerea della Nato. Sorvoliamo sul recentissimo accordo con la Libia di al Sarraj per le rispettive zone economiche nel Mediterraneo, stipulato senza farne parola con l’Italia e gli altri Paesi costieri e insulari.

È vero, noi siamo altrimenti affaccendati, ma intanto i motivi di attrito tra i Paesi Nato sono reali e aumentano. La Nato continua: la volontà è ben rilevabile nei nove succinti paragrafi del press release londinese, digeriti però da tutti solo grazie al lavoro di lima degli sherpa. È però opinione comune che anche la loro abilità non sarebbe stata sufficiente se non fossero intervenute novità che, pur a fronte di tanti elementi divisivi, hanno consigliato i Paesi membri a dimostrarsi coesi. Formalmente lo hanno fatto, ma senza eccessivo entusiasmo. Infatti, al di là dell’annosa questione del 2%, per la prima volta c’è stata l’irruzione di argomenti pesanti, come l’attivismo globale della Cina, l’esigenza (mai esplicitata) di allontanare la Turchia dall’orbita russa e, da ultimo, l’impellenza di attivare la Nato anche nella difesa cibernetica e spaziale.

Elementi ineludibili, il cui futuro dibattito, si spera, lascerà meno spazio agli attuali dissidi. Altro elemento influente, presente nell’aria ma mai menzionato, è che Donald Trump, ormai vicino all’impeachment, per evitare un’eccessiva solitudine sarà costretto a moderare almeno il linguaggio. Nessun timore (per i volenterosi) e nessuna speranza (per i disfattisti): la Nato resisterà anche dopo Londra e, lentamente, avanzerà nel processo di adattamento alla realtà. Ha ragione l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, presidente e fondatore della Nato defense college Foundation, quando condivide con i lettori un’espressione assai arguta, importata da Bruxelles: “La Nato è guidata dalla necessità, non dalla programmazione”.

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