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Perché gli Emirati Arabi sponsorizzano la guerra in Libia? Risponde Cinzia Bianco (Ecfr)

Secondo diverse letture, il signore della guerra dell’Est libico, Khalifa Haftar, avrebbe due generi di sponsorizzazioni. Quella più discreta fornita dalla Russia e dalla Francia. Quella di Egitto ed Emirati Arabi, dove se i primi – dicono fonti di stampa – stanno leggermente alleggerendo il propri impegno, Abu Dhabi è il centro della spinta tecnica e politica della campagna haftariana per conquistare Tripoli. Operazione che procede nonostante la tregua extra-libica segnata dalla Conferenza di Berlino, e nonostante nella stessa riunione internazionale si sia rimarcata la necessità di sospendere gli aiuti esterni ai fronti in guerra (rispettando un embargo Onu).

Su queste colonne, Karim Mezran dell’Atlantic Council ha detto che gli Emirati sembrano i reali vincitori della Conferenza di Berlino. Hanno ottenuto che il loro uomo in Libia, Haftar, diventasse potabile sul piano diplomatico e allo stesso tempo stanno continuando a sostenerlo sul piano militare. “Certo, perché l’idea che sentiamo ripetere secondo cui il conflitto libico non si possa vincere sul piano militare non è assolutamente condivisa ad Abu Dhabi. E questo spiega perché sono disponibili a livello retorico e diplomatico, ma non credono che la via politica sia l’unica strada”, spiega a Formiche.net Cinzia Bianco, research fellow su Europa e Medio Oriente all’European Council on Foreign Relations di Berlino.

Ma qual è il genere di interesse degli Emirati sulla Libia? “Molti. Partiamo dal principale: la ‘String of Ports’, la strategia con cui gli emiratini vogliono costruire una catena di porti, con la quale vogliono diventare una stampella della Cina nella Belt and Road Initiative. Ossia vogliono essere un offshot della Bri che loro possono controllare e gestire, diventando così un partner nevralgico e indispensabile di un player che considerano in ascesa, diversamente da come vedono gli Stati Uniti. Questo pensano che gli garantirà influenza internazionale in futuro”.

E non a caso nella Cirenaica (la regione orientale della Libia controllata militarmente da Haftar) gli Emirati hanno già messo le mani su infrastrutture portuali sia per scopi civili che militari. E su questo va allargata l’ottica all’intero quadrante nordafricano, perché sul Marocco e sulla Mauritania, così come in Tunisia, la penetrazione è più difficile per il contesto politico non amico di Abu Dhabi. Allora la Libia diventa importante. C’è infatti anche una confronto di livello più alto, infatti: diciamo sul piano politico intra-islamico. “È l’altro grande obiettivo emiratino. Contrastare la Fratellanza musulmana, che in questo momento ha nella Turchia il paese di riferimento. E siccome in questo momento la Libia è importante per Ankara, e la Turchia è diventata il nemico-numero-uno nella lista di pericolosità di Abu Dhabi, l’equazione è fatta”, aggiunge Bianco.

E per quel che riguarda le risorse naturali? La Turchia s’è pesantemente spostata su Tripoli per mettersi di traverso al quadro dell’EastMed, dove il sistema geopolitico che si sta creando attorno a immensi reservoir energetici è percepito da Ankara come ostile. E i geologi dicono che nell’off-shore libico ci sono giacimenti che potrebbero essere importanti. Abu Dhabi ha interessi in questo senso? “Certamente anche per le grandi famiglie mercantili degli Emirati c’è un interesse al quadro energetico, e poi non dimentichiamo che la Libia è una cerniera di collegamento tra il Mediterraneo e il Corno d’Africa, dove gli emiratini hanno grossi interessi sul piano geopolitico”.

Qualcosa che è concreto anche in Yemen, dove gli Emirati guardano soprattuto al Sud, coste lungo le quali stanno costruendo già dei terminal portuali per risorse petrolifere da cui arrivare poi via terra e aggirare Hormuz, senza subire la minaccia iraniana. Bianco ricorda per esempio l’importanza dell’isola di Sokotra, a sud dello Yemen, davanti al Corno d’Africa, “è già sotto sovranità emiratina, anche se in maniera informale, perché è piazzata in un quadrante in cui diventa fondamentale per la string portuale e la sicurezza marittima”.

Molto spesso quando si parla di Emirati si parla di Arabia Saudita in modo automatico: c’è una sovrapposizione su queste dinamiche? “Sì, ma non pensiamo a un doppio filo. Gli emiratini condividono con Riad la visione portuale che si lega alla Cina, così come hanno condiviso che se il Medio Oriente vedrà gli Usa in ritirata strategica allora potrebbe diventare un far-west dove dunque se non estendono la loro influenza, allora saranno i turchi a farlo. Però possiamo dire che non c’è una dipendenza esclusiva”.

Delle relazioni tra Emirati e Cina si parla da diverso tempo, ma sappiamo che Abu Dhabi è molto collegata, amica, alleata di Washington. Introdurre il discorso libico ci ha permesso di inquadrare una una strategia, di cui la Libia fa da cartina di tornasole magari, che vede gli emiratini orientati verso Pechino. Come gestiscono questa dicotomia? “Sanno di essere indispensabili per sostenere i grandi interessi strategici di queste potenze. Washington e Pechino guardano al Medio Oriente, ma non vogliono un enorme coinvolgimento, e così gli emiratini trovano il modo di incunearsi in quegli interessi cinesi o americani e contemporaneamente tutelano le loro strategie”.

Sono molto pragmatici, dunque, e per questo diventano utili anche per i rivali. “Per esempio, quando diciamo di rendersi indispensabili per i partner più grandi, intendo anche quello che sta succedendo in Libia. Magari ultimamente le cose stanno un po’ cambiando anche perché c’è stata bad-press, ma fino a qualche tempo fa a Washington, non dispiaceva affatto il posizionamento libico degli emiratini. Era un modo per restare distaccati e sfruttare il loro coinvolgimento”.

 

 



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