Il “Piano del secolo” per il Medio Oriente è prima di tutto un patto tra il presidente statunitense Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Un patto geopolitico ma anche elettorale stipulato oggi alla Casa Bianca alla presenza delle più alte personalità dell’amministrazione Trump, degli ambasciatori di Oman, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti e degli autori del piano di pace (i consiglieri del presidente Trump, Jared Kushner e Avi Berkowitz; l’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman; l’ex inviato Usa per il Medio Oriente, Jason Greenblatt).
Iniziamo dagli aspetti geopolitici e dal contenuto dell’accordo contenuto in un documento di 181 pagine intitolato “Peace to prosperity”: due Stati con Gerusalemme capitale “non divisa” di Israele e la capitale dello Stato palestinese (espressione mai pronunciata da Netanyahu nel suo discorso) situata nella zona orientale di Gerusalemme, dove gli Stati Uniti “apriranno un’ambasciata”, ha promesso il presidente Trump. “Funzionerà, se ci seguiranno, funzionerà”, ha detto ancora. Inoltre, 50 miliardi di dollari per i palestinesi e il riconoscimento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania (i media israeliani già scrivono che il governo sarebbe pronto ad approvare una legge per l’annessione – sostenuta da Trump – la prossima settimana). Il piano proposto dovrebbe essere attuato in un periodo di quattro anni, dopo i quali ci saranno dei negoziati per proseguire con la seconda fase e determinare il controllo del resto del territorio.
È la proposta più pro-Israele mai fatta dagli Stati Uniti: i palestinesi ottengono il 70% della Cisgiordania ma Israele può spostarsi immediatamente negli insediamenti annessi. I palestinesi ottengono la capitale nella periferia di Gerusalemme ma non avranno alcun diritto al ritorno in Israele né controllo sui luoghi santi. In cambio, Trump ha ricevuto due concessioni fondamentale: l’eventuale creazione di uno Stato palestinese e lo stop agli insediamenti nel territorio destinato alla nuova entità statuale.
Trump ha ringraziato Oman, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti ma pesano le assenze alla presentazione. Quella della Giordania, dei palestinesi (l’Autorità nazionale palestinese non ha accettato il piano di pace), dell’Arabia Saudita e dell’Egitto in particolare, principali attori dell’area senza i quali difficilmente un piano di pace può reggere. E che avranno un ruolo fondamentale che l’amministrazione Trump non può sottovalutare per aumentare la pressione sui leader palestinesi spingendoli, finalmente, ad accettare un’intesa e voltare pagina.
“È tempo che il mondo islamico riconosca lo Stato di Israele”, ha spiegato Trump dal podio. Accanto a lui, Netanyahu che, come il suo sfidante alle prossime elezioni israeliane Benny Gantz, ha detto sì all’accordo parlando di “un percorso realistico per una pace duratura”.
In un altro passaggio il presidente Trump ha spiegato di aver “fatto molto per Israele”, ricordando lo spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, il riconoscimento delle Alture del Golan e l’uscita dal “pessimo” accordo nucleare con l’Iran. Il messaggio di Trump a Netanyahu (i due sono legati in queste ore anche da questioni legali con l’impeachment che incombe per il presidente e l’incriminazione di oggi per il premier) è chiaro: ho scommesso su di te, il mio è anche un assist elettorale.
Lo è per Netanyahu, certo. Ma anche per lo stesso Trump che anche oggi si è lasciato andare a toni da campagna elettorale: “Non sono stato eletto per fare piccole cose ma per fuggire dai grandi problemi”.