Se il discorso di Mario Draghi pubblicato dal Fatto Quotidiano è veramente stato l’incipit del Britannia, se quello è stato il tono di tutti gli interventi durante la famosa mini crociera nello Yacht della famiglia reale del Regno Unito, difficile che sia veramente stata quella la sede nella quale si decisero i destini dei colossi pubblici italiani, che sarebbero stati poi ceduti a partire dagli anni Novanta.
Il quotidiano diretto da Marco Travaglio riporta il discorso integrale che l’allora direttore generale del Tesoro tenne nel panfilo reale nel giugno del 1992. Il futuro presidente della Bce fece il punto sulle privatizzazioni, disse chiaramente che non avrebbe dato i tempi delle cessioni, ma che si sarebbe limitato a un elenco di “cose da considerare per valutare la solidità del processo”. Sottolineò come le privatizzazioni siano “una delle poche riforme nella vita di un Paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo”.
Ma mise anche dei paletti, in quel lontano 1992, che suonano ancora attuali. Il principale è il “no “alle privatizzazioni per fare cassa. Vero che furono introdotte originariamente “come un modo per ridurre il deficit di Bilancio”. Ma “più tardi abbiamo compreso” che “la privatizzazione non può essere vista sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali”. Quindi introito delle cessioni a riduzioni del debito, non per abbattere il deficit. Altro punto: “Quando un governo vende un asset profittevole perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito”.
Punto a favore delle privatizzazioni, rendono più grande il mercato finanziario. Ci si aspetta che portino più crescita e più efficienza nella gestione dei servizi, ma per questo serve anche una “deregolamentazione”, peraltro inevitabile perché prevista dalla integrazione europea. In quegli anni ci si aspettava una minore ingerenza politica “nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche”. Sbarazzarsi di questo controllo è “lodevole”, ma “dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema col proprietario privato, che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa”, spiegò Draghi all’evento organizzato da “British invisibles”.
La tesi di fondo è che le privatizzazioni vanno realizzate di pari passo con le riforme, che sono una scelta “politica” e per questo “occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze”. Inevitabile interrogarsi poi “visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia” sugli effetti delle cessioni, a partire da quelli sul lavoro.
Tutti elementi da considerare prima del collocamento, che Draghi specificò sarebbe stato “almeno inizialmente” destinato agli “investitori domestici”.
Tra le ragioni per cui vanno fatte, spiegò Draghi nelle conclusioni, c’è la credibilità dell’Italia agli occhi dei mercati. Poiché “sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale”. I “benefici indiretti” di questa credibilità per Draghi avrebbero avuto un ruolo positivo anche sui conti pubblici. È la riduzione della spesa per interessi pubblici. Lo spread, prima che andasse di moda.