In Iran è in atto un riassetto, la necessità di costruire o confermare il consenso in un momento delicato per il Paese. La crisi economica legata anche all’isolamento imposto sotto forma di regime sanzionatorio dagli Stati Uniti si sente. La disoccupazione giovanile è altissima come l’inflazione. Il Paese è pervaso da sacche di potere e corruzione abbinate a settori connessi con gli interessi dei Pasdaran. I giovani scendono da mesi in strada per protestare contro il sistema – a proprio rischio: la repressione ha già ucciso e punito diverse migliaia di persone.
L’accordo sul nucleare Jcpoa, che avrebbe potuto riaprire i collegamenti internazionali col mercato iraniano, è in profonda crisi – ed è possibile che non resista ancora molto all’uscita unilaterale americana del maggio 2018. Non bastasse, una stagione di confronto militare con gli Usa s’è aperta questa estate. Coinvolti in prima linea quei settori ultra-conservatori, collegati ai Pasdaran – ambienti che rischiano di mettere a repentaglio la stabilità del paese e della regione pur di preservare i propri interessi interni.
Anche per questo, il presidente Hassan Rouhani ieri, durante un incontro con i governatori regionali a Teheran, ha detto: “Dobbiamo restare uniti”. Ha accusato gli Stati Uniti di voler creare un divario tra l’establishment e la popolazione con la politica di massima pressione, e ha sollecitato gli iraniani a partecipare in massa alle elezioni parlamentari del 21 febbraio: “Non voltate le spalle alle elezioni. Anche se notiamo difetti, non dovremmo permettere che la nostra unità si frantumi il giorno del voto”. L’obiettivo dell’appello però non è Washington (semmai è un messaggio a Washington). Piuttosto è evitare la crescita del consenso dell’ala radicale e reazionaria, quella connessa agli interessi più infimi che si nascondono nei lati grigi della teocrazia. Non a caso, le parole del presidente arrivano dopo che nei giorni scorsi in molti – lui compreso – avevano criticato il Consiglio dei Guardiani per aver escluso molti candidati moderati e riformisti dalle elezioni. Quelli che rappresentano la sua linea, per due mandati riconfermata dalla popolazione. Linea che è l’argine contro le posizioni più aggressive.
Rouhani utilizza una ricostruzione secondo cui il regime sanzionatorio iper-pressante americano favorirebbe la divisione interna in Iran. Spieghiamo questo schema articolato. Dal 2013 l’Iran è stato guidato dagli esponenti della linea pragmatico-moderata che aveva cercato di avviare il dialogo con l’Occidente. Il Jcpoa era lo strumento politico che segnava l’apice del percorso. L’accordo per congelare il programma nucleare e chiudere una stagione di elevata aggressività iraniana avrebbe potuto riaprire l’export di Teheran e far crescere il paese permettendo una nuova fase di sviluppo.
Per questo l’Iran accettava di fare un passo indietro, ottenendo un contraccambio. Nel frattempo però la Repubblica islamica ha portato avanti una linea parallela guidata dai Pasdaran. Si sono occupati di muovere alcuni programmi militari come quello dei missili balistici e del grande piano di diffusione regionale attraverso la creazione di proxy, partiti-milizia controllati, incuneati all’interno di vari paesi dell’area. Davanti a questo, e su spinta di alleati regionali come Arabia Saudita e Israele, l’amministrazione Trump ha ritirato gli Usa dal Jcpoa (una decisione presa anche per creare discontinuità con la detestata amministrazione precedente). La mossa è stata sfruttata dai cultori delle posizioni ultra-conservatrici e anti-governative in Iran, che hanno cercato di dimostrare come la strategia di colloquio con Washington e con l’Occidente non aveva funzionato. Lo scopo, al di là dell’ideologia, era ed è cercare quindi di speculare politicamente (ed economicamente) su questa narrazione.
Da maggio dello scorso anno hanno iniziato a usare azioni dirette che poi a inizio gennaio sono quasi diventate una guerra aperta. L’escalation è controllabile se certe linee aggressive e guerresche vengono controllate. Possibilità che se la dottrina-Rouhani dovesse uscire molto indebolita già dalle urne di febbraio sarebbe meno concreta. Per esempio: anche ieri, con lo scontro tra Usa e Iran che ha toccato livelli critici nelle scorse settimane, una milizia irachena controllata dai lati più bellicosi dei Pasdaran, la Kata’ib Hezbollah, ha lanciato cinque razzi Katyusha contro l’ambasciata americana di Baghdad. Tre sono caduti dentro il compound fortificato nella Green Zone della capitale dell’Iraq. Un contractor statunitense è rimasto ferito. Sono episodi delicatissimi, se si considera che l’Iraq è il terreno di scontro con gli Usa. C’è stato un attacco missilistico in una base americana a Kirkuk compiuto dalla Kata’ib che ha ucciso un altro contractor Usa; un bombardamento americano di risposta; l’assalto a quella stessa ambasciata statunitense di Baghdad da parte di esponenti delle milizie irachene e cittadini da loro fomentati; poi il raid per eliminare Qassem Soleimani, il generale dei Pasdaran che era intimo della Guida Suprema; la salva di missili per vendetta contro la base al Asad e quella di Erbil. Episodi tenuti sul filo della tensione dai Pasdaran a cui né Washington né Teheran hanno però voluto dare seguito in escalation. Ieri, secondo ricostruzioni non ufficiali, gli aerei americani nel Golfo aspettavano il via libera per attaccare basi della Kata’ib Hezbollah come rappresaglia per i razzi sull’ambasciata, ma l’ordine dalla Casa Bianca non è mai arrivato.