Le Sardine rappresentano una novità assoluta. Lo si capisce dalle reazioni talora scomposte che hanno provocato e ancor più se ci domandiamo: chi l’avrebbe detto? I trend anche recenti non facevano pensare a una così vistosa deviazione rispetto a uno stile di disimpegno su cui sembrava adagiato da troppo tempo il cluster dei giovani. I segnali in controtendenza sembravano deboli, ma già i dati recenti sull’analisi del voto facevano apparire una frattura netta e singolare che preludeva alle scelte di cui stiamo parlando. Ora, però, sono tornati e dobbiamo capire meglio il loro progetto privilegiando i loro comportamenti. E qui le sorprese diventano tante e profonde.
Sono anzitutto il frutto di un’acculturazione sempre più democratica a cui è mancato il “contrappasso” di un riconoscimento nei ruoli sociali e nel mercato del lavoro. Generazioni formate a sentirsi classe dirigente eternamente rinviate però a diventarlo e che tuttavia si pongono quasi come un libro-party. Finora si erano espresse essenzialmente nel voto e nell’astensionismo. Non è positivo, allora, che i segnali siano quelli che inviano oggi? Persino nelle occasioni elettorali in cui indubitabilmente essi lasciavano tracce di sé, il ritorno al disimpegno era evidente già la sera dei risultati. È successo anche nei referendum sui beni pubblici in cui pure il loro schieramento è stato decisivo.
La svolta è più vistosa ricostruendo quante volte abbiamo parlato di giovani immobilizzati davanti agli schermi e che invece oggi li usano come originale e innovativo canale di riconoscimento e mobilitazione. La Rete è il sussidiario della loro esistenza e vocalità, ma contro il ripiegamento e l’astensione: la più irrevocabile dichiarazione di sfiducia per l’offerta politica data. Non stupisce, dunque, che la loro sia una risposta polemica. Ma lo è solo nella comunicazione e nelle piazze. In altri contesti la prima opzione è la violenza e qui non c’è, e colpisce anzi la loro capacità di sottrarsi all’abbraccio mortale dell’estremismo.
Trovate davvero tracce adeguate di queste novità nelle narrazioni correnti? Perché non ammettere che tutto questo è ciò che mancava al nostro spazio pubblico, l’aspettativa insperata dei nostri desideri? E aggiungo un ulteriore indicatore di novità: per la prima volta un movimento non nasce contro il governo, ma scagliandosi contro la degradazione del clima sociale e di una esasperata polarizzazione degli animi. In un Paese normale, tutto questo avrebbe del miracoloso. Ma non lo è per l’impreparazione degli osservatori di casa nostra. Altrimenti non sarebbe statu nascenti.
La condizione generazionale come quella che abbiamo alimentato e stratificato in questi anni si fonda sull’amaro adagio: “sento parlar bene del lavoro flessibile, ma tutti quelli che me ne parlano hanno il posto fisso”. Ma la circostanza che essa è figlia di un’acculturazione senza precedenti nella storia italiana riduce il rischio che l’unica risposta sia il rifiuto radicale degli adulti e delle istituzioni. Le distanze, certo, restano in piedi nelle tematiche e nelle issues che mettono in campo anche perché, troppo spesso, esse coincidono con quelle in cui non trovano i contenitori politici di oggi.
Ma è straordinaria la qualità del loro modo di porsi e rappresentarsi: non cadono nella trappola di slogan cacofonici; ridimensionano leaderismo e personalizzazione; respingono il teatrino contro i migranti; cercano uno spazio nuovo che esclude settarismo e violenza. E non vogliono domiciliarsi troppo presto per evitare annessioni illogiche e intempestive. Persino la scelta del nome attesta la maturità e gli studi sul potere della rete, e un docente può riconoscere qui le tracce di un sapere moderno e di inedite figure intellettuali che proprio la nuova Università ha saputo preparare negli ultimi anni.
Quale che sia la traiettoria che si daranno, domandiamoci cosa abbiamo fatto di buono e di risolutivo per giudicare le loro scelte. Rinunciando al ruolo abusivo di giudici istruttori può cominciare un’autentica strategia dell’attenzione.