Di fronte a un quadro geopolitico in costante evoluzione e sempre più complesso, appare chiara la necessità da parte dell’Italia di ridefinire la strategia di intervento in diversi teatri di crisi. Una strategia “che consenta di adeguare la nostra presenza militare al mutevole scenario geo-strategico e superare la valutazione caso per caso che ne ha caratterizzato ogni singolo avvio”. Questo l’auspicio dell’analisi pubblicata su AffarInternazionali, firmata da Michele Nones, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), e da Vincenzo Camporini, consigliere scientifico dell’Istituto, già capo di Stato maggiore della Difesa.
I PRINCIPALI TEATRI DI CRISI
Il problema essenziale, spiegano gli esperti, non riguarda la partecipazione in sé della nostre Forze armate nei teatri di crisi. La loro presenza ci ha consentito, infatti, di esercitare negli anni un ruolo di notevole importanza in aree di crisi fondamentali per la sicurezza internazionale, oltre che di difendere i nostri interessi nazionali. La questione, invece, ricade sulla stasi strategica in cui si trova il nostro Paese, a fronte dei mutamenti occorsi nelle aree in cui il nostro Paese è intervenuto militarmente e civilmente. In particolare, in tre teatri critici – secondo Nones e Camporini – “si rileva la profonda trasformazione intervenuta in questi ultimi decenni, anche per quanto attiene obiettivi e presupposti del nostro intervento”, ovvero Afghanistan, Iraq e Libia.
QUANTO VALE LA MISSIONE AFGHANA?
Nel caso afghano, ad esempio, le motivazioni dell’intervento militare, risalente a ben diciotto anni orsono, erano essenzialmente di “contrastare l’organizzazione terroristica al Qaeda e manifestare la nostra solidarietà agli Stati Uniti in ottica transatlantica avendo la Nato attivato per la prima volta nella sua storia l’articolo 5 sulla difesa collettiva”. La situazione ad oggi. da un lato. non presenta segni di miglioramento, considerando l’estrema frammentazione della società afghana e la persistente debolezza del governo locale, e dall’altro vede un’evoluzione molto negativa dei rapporti all’interno dell’Alleanza atlantica. Quest’ultima derivante essenzialmente dal nuovo approccio strategico del Pentagono, che ha – come rilevato da Nones e Camporini – avviato, ad esempio, trattative con i talebani senza coinvolgere i Paesi alleati. Questa serie di circostanze dovrebbero portarci, dunque, a rivalutare e ridefinire “la nostra disponibilità a continuare a impegnarci in quel teatro”.
LA NECESSITÀ DELLA NOSTRA PRESENZA IN IRAQ
Anche per quanto riguarda il teatro iracheno i presupposti del nostro intervento, comparabili a quelli della missione in Afghanistan, necessitano di una rivalutazione. A seguito di ben due interventi, il primo nel 2003 nell’ambito della Seconda guerra del Golfo e il secondo nel 2014 in contrasto al sedicente Stato islamico, la situazione non è migliorata significativamente, soprattutto a causa delle non sopite tensioni interetniche e interreligiose. Inoltre, si è fatta sempre più evidente in questi anni la necessità di fare fronte a una sempre maggiore influenza da parte della Repubblica islamica. Anche qui, le azioni unilaterali statunitensi, quale l’uccisione del generale Qassem Soleimani, hanno aggiunto ulteriore incertezza in un’area di crisi. Senza contare il fatto che il nostro Paese non è stato neanche informato di quest’ultima azione, “a differenza di quanto fatto con Londra, Parigi e Berlino, nonostante il nostro Paese fornisca il secondo contingente della coalizione internazionale”. A tutto ciò però – come sottolineano Nones e Camporini – va aggiunta la necessità di considerare con estrema cautela un eventuale ritiro. Vi è infatti, nel caso iracheno, un considerevole rischio che un disimpegno “favorisca la rinascita dell’Isis, acutizzando la crisi di un’area che è strategica per l’Italia e per l’Europa, con effetti a catena sull’intero Medio oriente”.
LA NOSTRA PORTA SULL’AFRICA
Il quadro libico, infine, rappresenta senza dubbio l’area di maggior interesse strategico per l’Italia. Gli esperti dello Iai evidenziano infatti che è nel paese nordafricano che “viene estratta e transita una parte importante dell’energia che consumiamo, qui sono stati fatti importanti investimenti economici, qui passa la maggior parte dei migranti che arrivano da noi. Questa è, anche storicamente, la nostra porta sull’Africa”. Malgrado questa centralità della Libia per l’Italia, viene sottolineato da Nones e Camporini quanto non vi sia stata da parte italiana (e da parte della comunità internazionale) un serio e costante impegno per riportare il Paese in una condizione di stabilità a partire dall’intervento Nato del marzo 2011 volto a destituire Muammar Gheddafi. Al contrario la nostra azione si è limitata al “tema del controllo dei migranti in partenza verso le coste italiane, cercando di evitare le conseguenze della crisi libica, anziché intervenire per rimuoverne le cause”.
QUALE STRATEGIA PER L’ITALIA?
L’auspicio di Nones e Camporini per una rivalutazione e ridefinizione strategica relativamente alla nostra presenza in aree di crisi sembra essere condiviso dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Quest’ultimo ha infatti confermato, in vista dell’approvazione da parte del Parlamento del decreto di finanziamento per le missioni internazionali, la necessità di “una riconfigurazione delle missioni all’estero”. Ma in che direzione andrebbe attuata questa riassesto delle nostre strategie di intervento? Secondo Nones e Camporini, è fondamentale che si riesca a definire “una strategia con una proiezione temporale che superi l’episodicità di questi ultimi venti anni, e coinvolga opinione pubblica e decisori in una riflessione sulla necessità di contrastare le nuove minacce che si stanno profilando”.