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La scommessa di Trump. Pace con l’Iran e un nuovo accordo nucleare

Prima l’escalation, e il pugno di ferro. Poi l’appeasement, e un processo negoziale da intestarsi. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump parla dalla Casa Bianca alle 17 italiane. Ad attenderlo ci sono, oltre ai vertici dell’esercito, il Segretario alla Difesa Mark Esper e il vicepresidente Mike Pence, scuri in volto. Un comitato d’accoglienza che fa pensare a un gravoso annuncio alla nazione. L’annuncio c’è, ma non è quello che tutti si aspettavano.

Nella notte l’Iran ha lanciato l’operazione “Martire Soleimani” per vendicare il generale Qasem Soleimani, comandante delle Forze Quds ucciso la settimana scorsa a Baghdad da un raid americano. Diciassette missili iraniani hanno colpito la base americana di al-Asad e altri cinque quella di Erbil nel Kurdistan iracheno. L’agenzia di Stato iraniana Tasnim aveva comunicato l’uccisione di 80 militari americani. Nulla di vero, garantisce Trump. “Non c’è stato alcun morto o ferito nell’attacco, solo danni minimi alla nostra base militare” esordisce incontrando i cronisti a Pennsylvania Avenue.

Trump dischiude la road map americana: non ci sarà alcuna rappresaglia per l’attacco missilistico. E quindi, per il momento, nessuna guerra. “L’Iran deve abbassare la tensione, è una buona cosa per il mondo intero – dice – dal 1979 le nazioni hanno tollerato l’Iran destabilizzatore, è stato il primo sponsor mondiale del terrorismo, ha lavorato a un’arma nucleare, minacciato il mondo civilizzato, quei giorni sono finiti, non permetteremo mai che succeda”.

Il presidente vuole calare il sipario e aprire una nuova stagione nei rapporti con l’Iran, sotto l’egida di Washington DC. Il sipario si chiama Soleimani, e la sua uccisione è rivendicata con orgoglio dall’amministrazione americana proprio nelle ore in cui il corpo del generale è stato sepolto a Kerman, la sua città natale nel sudest dell’Iran, accompagnato da una folla oceanica. “Abbiamo preso un’azione decisiva per fermare un terrorista responsabile di terribili atrocità, con le mani insanguinate di sangue americano e iraniano, doveva essere terminato molto tempo fa”.

Eliminato uno dei più potenti uomini del Medio Oriente e il nemico numero uno degli Stati Uniti nella regione (se non al mondo), Trump è pronto a voltare pagina, battezzando un nuovo processo negoziale. La strategia non è inedita. Prima il bastone: le sanzioni economiche del Dipartimento del Tesoro che da mesi piegano in ginocchio l’economia iraniana e il suo perno, l’export del petrolio, rimarranno in vigore “finché l’Iran non cambierà il suo atteggiamento”. Poi la carota: ben venga l’accordo sul nucleare iraniano, ma deve essere riscritto da zero. Trump cala (di nuovo) la scure sul Jcpoa (Joint comprehensive plan of action) sottoscritto nel 2015 e abbandonato nel 2017 dagli Stati Uniti. E si rivolge a chi all’epoca si è fatto garante dei patti con Teheran: Francia, Germania, Regno Unito, Russia e Cina. A loro si rivolge il presidente con una promessa: “Il Jcpoa muore in ogni caso”. Ora i garanti di quegli accordi “devono riconoscere questa realtà e romperlo, mettersi insieme per un nuovo accordo con l’Iran che rende il mondo più sicuro”.

Il ramoscello d’ulivo a Teheran viene festeggiato dalle Borse. Va giù il petrolio a New York, dove le quotazioni Wti perdono il 3,8% e il Brent il 3,2%. Il Nasdaq sale dello 0,67%, Dow Jones dello 0,63%, S&P addirittura dello 0,7%. L’annuncio alla Casa Bianca è condito, come da protocollo Trump, di una lunga serie di elogi al popolo iraniano: “Un grande Paese, con un enorme potenziale, che vuole pace e stabilità”. L’eliminazione di Soleimani è “un messaggio chiaro e inequivocabile” dal mondo occidentale: “La campagna del terrore non sarà più tollerata”. La deterrenza è ristabilita, tuona Trump, “la forza militare ed economica americana è l’arma migliore”, ma in caso di una nuova escalation sono pronti “i missili supersonici”, anche se, chiarisce subito dopo, “non dobbiamo e non vogliamo usarli”. L’ultimo appello è alla Nato. L’Alleanza atlantica “deve essere più coinvolta nel processo mediorientale”. È anche questo un riferimento non scontato, che segna la volontà del presidente di firmare un processo di riassetto degli equilibri mediorientali di cui la morte di Soleimani non è che la punta dell’iceberg.

Rimane incerta la reazione del governo iraniano. Se un esponente della fazione “moderata” al potere come il ministro degli Esteri Javad Zarif ha annunciato nella notte su Twitter che dopo gli attacchi missilistici il governo iraniano “non cerca un’escalation”, la Guida suprema Ali Khamenei si è espresso nella direzione opposta, sostenendo che “queste azioni militari non sono abbastanza”. La risposta di Teheran però, spiega su Twitter il presidente di Eurasia Group Ian Bremmer, dimostra che “il tempo della negoziazione è arrivato”.

Due le conseguenze immediate del nuovo processo negoziale lanciato da Trump. La prima: un incasso sul fronte della politica domestica, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali. Non importa che l’Iran (o uno dei suoi proxies regionali) prosegua l’offensiva. Lo stop del presidente oggi incontra il favore bipartisan di una parte non trascurabile dei democratici (eccetto quelli che, per necessità di campagna elettorale, sono poco inclini alle concessioni verso l’avversario) e di un fronte bipartisan nel mondo repubblicano dal quale si erano in queste ore alzate non poche voci a favore di una de-escalation, anche dagli hardliners sulla strategia mediorientale (è il caso del senatore Lindsey Graham ma anche del leader del Gop al Senato Mitch McConnell).

La seconda: inizia per i Paesi europei e alleati un conto alla rovescia per fare una scelta di campo. Non sfugge a nessuno (lo ha ammesso anche il governo iraniano) che del Jcpoa oggi poco o nulla è rimasto in piedi. L’uccisione di Soleimani può aprire uno spiraglio per sedersi intorno a un tavolo, passata la fase della massima tensione, e ridiscutere termini e dettagli di un nuovo accordo. Le placche tettoniche della politica europea sono già in movimento. Il Regno Unito di Boris Johnson si è subito schierato con la Casa Bianca e anche dall’Eliseo di Emmanuel Macron è arrivato un assist a Trump. Per non parlare dell’Italia, che tramite il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha garantito la permanenza delle sue truppe in Iraq incassando un sonoro endorsement da Esper e dall’intera amministrazione Usa.

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