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Quella di Trump su Israele e Palestina è una piattaforma negoziale. La versione di Dottori (Luiss)

Il presidente statunitense Donald Trump ha presentato ieri una proposta per risolvere il conflitto fra israeliani e palestinesi. Si tratta di un elemento di massimo interesse per la politica internazionale, che ci parla dell’amministrazione Trump e apre potenziali nuovi scenari sul contesto regionale. Formiche.net ha contattato Germano Dottori, docente di Studi strategici della Luiss e autore di un tomo di riferimento su Trump (“La visione di Trump“, Edizioni Salerno): a lui affidata un’analisi aperta partendo da alcuni spunti.

Perché il piano di pace? Indipendentemente dal contesto temporale (presidenziali in Usa, elezioni in Israele), la mossa per chiudere una delle più complesse questioni politico-territoriali della storia, cosa ci dice delle intenzioni di Trump?

Non credo si tratti di una mossa per chiudere definitivamente il conflitto israelo-palestinese, ma piuttosto dell’apertura di un processo negoziale, che per Trump potrebbe durare anche quattro anni: sono parole sue. Direi piuttosto che sia stata messa sul tavolo un’offerta, con annessa l’esplicitazione del prezzo che l’America è disposta a pagare per facilitarne l’accettazione: 50 miliardi di dollari. In realtà, a ben vedere, si tratta grosso modo del piano saudita che era stato messo a punto nel 2017 da Muhammad bin Salman insieme a Jared Kushner. Parliamo del progetto che contemplava Gerusalemme ovest capitale d’Israele, di cui proprio i sauditi avevano demandato la presentazione a Trump poco più di due anni fa, non riuscendo loro ad imporlo ad Abu Mazen, che in effetti non ha cambiato posizione.

È forte la sensazione che il piano presentato ieri dal presidente americano sia anche espressione della volontà del tycoon di cementare il blocco geopolitico sul quale intende basare il nuovo ordine in Medio Oriente. Alcuni paesi sono stati pubblicamente ringraziati per l’apporto dato alla sua elaborazione: Oman, Emirati e Bahrein. Ma è chiaro che anche il Cairo e Riyadh sono della partita. Non vedo grandi connessioni con il momento elettorale americano. Magari un modesto aiuto a Netanyahu ci sta. A mio avviso è più probabile che sulla scelta dei tempi abbiano influito altre variabili regionali, in particolare il forte coinvolgimento di Iran e Turchia in altre crisi.

Ci sono già stati degli allineamenti e dei disallineamenti riguardo a quanto annunciato ieri. Qualcosa che ci può far riflettere sulle dinamiche esterne che si muovono attorno al possibile accordo. Come potrebbe cambiare il Medio Oriente? E quali potrebbero essere le mosse degli attori esterni?

Le reazioni, del tutto prevedibili, stanno confermando le spaccature determinatesi in Medio Oriente durante lo scorso decennio. I governi ostili all’Islam Politico sembrano favorevoli al piano di Trump, mentre quelli che sostengono a vario titolo la Fratellanza Musulmana lo osteggiano, sia pure con graduazioni differenti. La situazione interna all’Autorità Nazionale Palestinese è particolare: Abu Mazen non può accettare la rinuncia a Gerusalemme senza rafforzare Hamas e le altre organizzazioni di stampo jihadista apparse a Gaza, che perseguono dichiaratamente la debellatio dello Stato ebraico. Se lo facesse, verrebbe cacciato e probabilmente rischierebbe anche la vita. Ma si prospettano tempi lunghi, sempre che Trump sia rieletto e nulla cambi nella postura americana di medio termine. Questa circostanza potrebbe essere d’aiuto.

Non è impossibile che in ambito palestinese prima o poi il realismo faccia finalmente sentire le sue ragioni: il ritorno di Israele alle frontiere antecedenti alla Guerra dei Sei Giorni è semplicemente impensabile. Così come il ritorno dei profughi, che incrinerebbe l’ebraicità di Israele. Inoltre, non è che ai palestinesi sia stato offerto proprio pochissimo: parliamo pur sempre di uno Stato, finora negato ed ora prospettato, seppure con importanti limitazioni. Sul tavolo ci sono anche il blocco dei nuovi insediamenti dei coloni israeliani e la possibilità di procedere a degli scambi territoriali. Il pacchetto, poi, è migliorabile. È una piattaforma negoziale.

Quali sono gli aspetti più critici sul piano regionale? E per Trump?

Ovviamente peserà l’ostilità della Turchia, con la quale però non dovrebbe essere impossibile aprire tavoli negoziali che riguardino altri suoi interessi fondamentali, come quelli energetici. Ankara è attualmente fuori dal progetto East Med, che non a caso ha cercato di tagliare in due con l’accordo sulle zone economiche esclusive stretto con al Serraj (il premier libico, ndr). Anche l’Iran potrebbe rappresentare un problema: ma Teheran è in difficoltà in Libano e dopo la scomparsa del generale Soleimani è venuto meno un punto di riferimento della sua azione esterna.

Poi ci sono le grandi potenze: in particolare, Russia e Cina. Entrambe hanno interesse a che il Medio Oriente si stabilizzi. Mosca, inoltre, guarda con crescente interesse all’Arabia Saudita e non sembra affatto indifferente alla circostanza che in Israele un quinto della popolazione sia russofono. Netanyahu ha dimostrato grande attenzione nei confronti del presidente Putin, invitandolo pochi giorni fa ad inaugurare con lui un monumento ai difensori di Leningrado sorto nel centro di Gerusalemme. Quanto alla Cina, ha fatto importanti investimenti ad Haifa alla cui redditività sicuramente tiene.

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