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Ad Abu Dhabi il Mediterraneo ha fatto suo il linguaggio del Concilio

Un anno fa veniva firmato ad Abu Dhabi il documento sulla fratellanza, redatto da papa Francesco e dall’imam dell’università islamica di al-Azhar. Poco dopo nella stessa città è stato istituito un comitato per l’attuazione del documento, nel quale è entrato il rabbino emerito di Washington, M.Bruce Lustig.

Siamo al cospetto di un testo epocale, perché il rettore della principale università teologica islamica archivia  secoli di discriminazioni religiosamente giustificate dall’Islam nelle terre dove è espressione della maggioranza e il papa a secoli in cui il cristianesimo ha creduto di dover uniformare se stesso e gli altri all’Occidente. Infatti questa pretesa viene esclusa dal documento, che riconosce la diversità culturale indicando la volontà della Chiesa di diventare veramente globale e quindi di esprimere un cattolicesimo plurale. Da parte sua la principale autorità teologica sunnita rigetta il sistema della protezione a cui si è piegato da secoli l’Islam, dimenticando la costituzione di Medina, che non discrimina per motivi religiosi i popoli del Libro.

Sono queste le stupefacenti novità che rendono epocale il documento firmato ad Abu Dhabi appena un anno fa e che i popoli del Mediterraneo, da Baghdad a Beirut, da Tehran ad Algeri, da Istanbul a Khartoum, hanno dimostrato di aver letto, capito e condiviso, cingendo il Mediterraneo in un unico movimento per la cittadinanza e la fratellanza. Questo movimento ha sfidato gli eserciti e gli apparati repressivi più feroci, o tra i più feroci del mondo. Era accaduto qualcosa di simile nel 2011, ma in questo 2019 è avvenuto in modo trasversale, interconfessionale, con la più forte è sorprendente rivendicazione di non violenza che ci sia mai stata.

Il primo compleanno del documento di Abu Dhabi non può certo dire di aver sconfitto i sopraffattori, i nemici del vivere insieme. Ma si può dire che ha trovato milioni di amici, determinati a ricostruire il Mediterraneo, quello che apparati repressivi, milizie e  potentati economico-tribali hanno spezzato.

Il dato di fatto sottaciuto è che Abu Dhabi ha dato a questo movimento per il vivere insieme un linguaggio comune, un linguaggio basato su quello del Concilio Vaticano II. Francesco e l’imam Ahmad Tayyeb lo hanno chiaramente scelto, quel linguaggio, sapendo che sa raggiungere il Mediterraneo ebraico, il Mediterraneo cristiano, il Mediterraneo musulmano e quello del lumi.  È giusto dunque riconoscere il coraggio, soprattutto da parte musulmana: condividere il linguaggio del Concilio Vaticano II come linguaggio di tutti gli uomini di buona volontà del Mediterraneo.

È evidentemente così; l’incipit del documento sulla fratellanza si ricollega chiaramente alla dichiarazione Nostra Aetate, del Concilio Vaticano II. Quel testo infatti esordisce con queste parole: “Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra (1) hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti (2) finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce (3)”.  In modo non dissimile la dichiarazione di Abu Dhabi esordisce con queste parole: “La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere”.

Poco oltre ci si richiama lo stile di un altro importantissimo documento conciliare, la dichiarazione Gaudium et spes. Lì i padri conciliari hanno scritto così: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti”.  Nel documento di Abu Dhabi c’è solennità, ma lo stesso afflato: “In diversi incontri dominati da un’atmosfera di fratellanza e amicizia, abbiamo condiviso le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al livello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeutiche, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del degrado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremismo e di tanti altri motivi. Da questi fraterni e sinceri confronti, che abbiamo avuto, e dall’incontro pieno di speranza in un futuro luminoso per tutti gli esseri umani, è nata l’idea di questo Documento sulla Fratellanza Umana. Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli”.

La scelta del linguaggio del Concilio deriva dal fatto che cinquant’anni fa il Concilio ha avviato un cammino di fratellanza e che questo venga riconosciuto fa onore al coraggio e alla visione di chi oggi sa ispirarsi e condividere quel linguaggio, rendendolo comune. Ci sono ovviamente dei contributi, radicati nella cultura e nella storia di al-Azhar. Ad esempio nel documento di Abu Dhabi si legge: “In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna”. Il discorso pronunciato il 4 febbraio del 2019 dallo sheikh al-Tayyeb mi fa pensare che possa aver suggerito lui, per la sua esperienza personale di bambino impaurito dalle bombe, di inserire quel riferimento a “quanti vivono nella paura”, mentre potrebbe essere Francesco ad aver suggerito il riferimento che successivo, quello al popolo.  Con il popolo Francesco sa far entrare nel testo la libertà e gli uomini di buona volontà, espressione profondamente conciliare, da quando vi fece ricorso Giovanni XXIII. Un’apertura ai non credenti che ritroveremo ancor più pregnante alla fine del documento: “In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre. In nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa. In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede. In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra”.

Ora comincia un altro viaggio, verso l’incontro del 22, 23 e 24 febbraio a Bari. Incontro di un centinaio di vescovi cattolici di tutto il Mediterraneo ed allargato a rappresentanti delle altre culture. Sarà un momento importante, e i critici del documento di Abu Dhabi già fanno capire che manifesteranno il loro pensiero. È quello che viene da pensare leggendo quanto ha affermato il patriarca siro-cattolico, Ignace Youssif III Younan, uno dei più autorevoli prelati che parteciparono al congresso sulla famiglia di Verona. Lo definisco un critico del documento sulla fratellanza perché nella sua intervista si legge: “L’Islam non ha esegesi: tutti i versetti del Corano vengono presi alla lettera. Compresi quelli violenti”. Ora se fosse come afferma il patriarca l’Islam avrebbe preso alla lettera il dettato coranico: “Dialogate con belle maniere con la Gente della Scrittura, eccetto quelli di loro che sono ingiusti. Dite (loro): – Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi ed in quello che è stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio ed è a Lui che ci sottomettiamo -” (Corano al-‘Ankabut 29,46). E invece il documento sulla fratellanza  dice chiaramente che ciò non è accaduto, per secoli, e per questo indica la strada della comune e pari cittadinanza, quella che i musulmani non hanno seguito per secoli, nonostante l’indicazione coranica, imponendo il regime della protezione a tutte le minoranze.

Il patriarca Younan è anche persuaso che la ricostruzione della Siria, il suo Paese, sia dietro l’angolo e che “i russi avranno un ruolo di primo piano nella ricostruzione, dato che sono stati i più onesti e pronti ad aiutare il popolo siriano nei momenti tragici”. Rimane da capire allora perché non abbiano già cominciato a ricostruire, ma questo forse lo spiegherà a Bari.



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