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ArcelorMittal, tutti i nodi (da sciogliere) dell’accordo. L’analisi del prof. Pirro

È stata rinviata al 6 marzo prossimo l’udienza al Tribunale di Milano avente come oggetto la discussione dell’ipotesi di recesso di ArcelorMittal dalla locazione prima e dall’acquisto poi del gruppo Ilva, e del ricorso presentato dai suoi Commissari straordinari contro la volontà manifestata formalmente il 4 novembre scorso dal gruppo francoindiano.

Il rinvio è stato richiesto concordemente dalle parti nel presupposto che entro febbraio si possa giungere ad un accordo: ma se ciò non avvenisse, il 6 marzo non vi sarebbe un’altra proroga e si andrebbe al dibattimento.

“Sono stati compiuti” – così hanno dichiarato i partecipanti alla breve udienza – “significativi passi in avanti” nella trattativa fra le parti che almeno nelle intenzioni puntano a raggiungere un’intesa entro fine febbraio. Ma i punti non definiti di un possibile accordo sono ancora numerosi e molto rilevanti – in primo luogo per il futuro del sito di Taranto – che mentre per l’Italia è un asset strategico dell’industria nazionale, per Arcelor potrebbe essere, una volta acquisita, o la sua più grande acciaieria in Europa, o anche, dopo una possibile chiusura dell’area a caldo, un semplice centro servizi.

Sembrerebbero già definiti, o almeno così pare, i livelli di produzione proposti dai negoziatori italiani, ovvero gli otto milioni di tonnellate nel 2023, l’introduzione di due forni elettrici con l’impiego del preridotto di ferro – che si affiancherebbero agli altiforni 4 e 5 (quest’ultimo da ripristinare essendo fermo da anni) – e l’ingresso dello Stato nella società. Abbiamo usato il condizionale “sembrerebbero” perché in realtà nelle ultime settimane è circolata a vari livelli una ridda di voci fra le più disparate, alcune delle quali avevano ventilato anche una definitiva uscita di Arcelor, previo versamento di circa 1 miliardo di euro ai Commissari quale ristoro per l’abbandono della complessa partita.

Ma uno degli avvocati del gruppo francoindiano – sottolineando che nel frattempo era stato  mantenuto l’impegno a continuare la produzione a Taranto  –  ha aggiunto che “non si vuole lasciare l’Italia” e che, pertanto, si lavorerà a raggiungere un accordo con il suo governo, del quale viene apprezzata la forte volontà del Presidente Conte che aveva incontrato nei giorni scorsi a Londra Lakshmi Mittal per riavviare la trattativa.

Ma abbiamo detto in precedenza che i punti di un possibile accordo non ancora definiti sono ancora molti e sono riferibili: a) ai possibili esuberi a Taranto e negli altri siti, sulle cui dimensioni permangono distanze notevoli fra le parti, e senza che si sia ancora aperta una trattativa con i Sindacati; b) al prezzo di locazione e di vendita che l’acquirente vorrebbe fortemente ridotto rispetto al primo contratto; c) alle dimensioni dell’intervento pubblico (con un veicolo ancora da definire), dovendosi trovare un accordo preliminare sul valore attuale degli asset; d) alla partecipazione nella società che gestirebbe i forni elettrici e la produzione del preridotto; e) allo scudo penale cui Arcelor non intende rinunciare. Resterebbe poi da approfondire l’ipotesi (tutta ancora da confermare) della partecipazione delle banche creditrici al capitale della società di gestione degli impianti, così come altri aspetti non secondari, come ad esempio la valutazione preventiva del danno sanitario generato dal ciclo produttivo della fabbrica di Taranto.

Ma, a nostro avviso, il nodo vero da sciogliere – e non è affatto sicuro che alla fine lo sia nel senso desiderato dal nostro governo e dalle parti sociali – riguarda proprio il ruolo che il Siderurgico ionico deve assolvere nello scacchiere produttivo di Arcelor in Europa. Per l’Italia questo stabilimento, lo si ricordava in precedenza, è stato classificato dalla fine del 2012 come sito di “interesse strategico nazionale”, ed è (e deve restare) per i volumi delle sue forniture un pilastro di larga parte dell’industria meccanica nazionale soprattutto del Nord. Per Arcelor, invece – che, non lo di dimentichi, è sempre un concorrente dell’Ilva – l’impianto tarantino, da un lato, sarebbe lo stabilimento più grande posseduto in Europa, ma dall’altro, con la dismissione della sua area a caldo (come voluto anche dagli ambientalisti) potrebbe essere declassato a centro servizi di sola laminazione di bramme importate da altri siti del gruppo francoindiano, dal momento che esso ha potenziato i suoi due impianti in Francia a Dunkerque e a Fos Sur Mer vicino Marsiglia, portandoli entrambi da 4 a 6 milioni di tonnellate annue di capacità.

Ma poi, se anche alla fine Arcelor accettasse di conservare una PMP-produzione massima possibile di 8 milioni di tonnellate in riva allo Ionio, conservando la gestione della società, chi garantirebbe che nella fase di commercializzazione dei prodotti delle sue varie fabbriche europee non finisca col privilegiare quelli degli stabilimenti esteri, soprattutto se più qualificati e meno costosi di quelli di Taranto? E in questo impianto si produrrebbero acciai di qualità in grado di battere la concorrenza di quelli meno pregiati provenienti dalla Cina e da altri Paesi extracomunitari?

Insomma, per dirla tutta con estrema franchezza, siamo proprio sicuri che al nostro Paese convenga vendere l’Ilva ad un temibile concorrente, e che non sarebbe invece più conveniente a questo punto lavorare a costruire sempre in esclusive logiche di mercato una forte cordata pubblico-privata nazionale?

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