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Nessun accordo sul bilancio: al vertice Ue vince Boris Johnson

Con queste parole Angela Merkel commenta l’esito disastroso del primo vertice Ue post Brexit: “Non siamo riusciti a raggiungere un accordo perché ci sono ancora differenze troppo grandi tra le posizioni dei singoli Paesi. C’è molto da lavorare”. Sono parole oneste, ma sono anche parole che certificano la condizione d’impotenza dell’Unione europea, impotenza che diventa fatto politico di prima grandezza anche (o forse soprattutto) perché si manifesta proprio nel momento in cui la Gran Bretagna inizia il suo percorso separato. L’esito funesto del summit sul bilancio di Bruxelles sta passando inosservato poiché il continente è alle prese con l’emergenza sanitaria, ma non per questo può essere derubricato a fatto di routine. Era infatti in discussione il tema più importante di tutti, cioè l’allocazione dei fondi di bilancio per gli anni 2021-2027.

Fondi che peraltro debbono fornire la base finanziaria per l’attuazione dell’ambizioso programma Green Deal che Ursula von Der Leyen ha presentato al mondo nelle passate settimane. Ebbene su quei fondi si sta cercando una posizione condivisa (che attualmente pare lontana anni luce) tra i molti Paesi (Italia compresa) che chiedono uno sforzo collettivo per rafforzare la capacità d’intervento Ue e il nucleo degli Stati che cercano invece di ridurre al minimo il bilancio dell’Unione, nucleo essenzialmente composto da Svezia, Olanda, Austria e Danimarca.

La questione però è tutt’altro che semplicemente numerica. L’ultima bozza di accordo (respinta dopo 24 ore di trattative continue, con riunioni che si sono protratte sino alle 6.30 del mattino) fissa l’asticella all’1,069% del Pil europeo in impegni (da 1,074%) e 1,049% in pagamenti effettivi. Numeri che già indicano un ridimensionamento delle ambizioni europee, figlio di due elementi oggettivamente presenti, vale a dire la minore disponibilità di risorse (causa cessazione del contributo Uk, non lontano dagli 8-10 miliardi l’anno a saldo) e la durissima presa di posizione dei Paesi “frugali”.

Il punto però cruciale è che quei Paesi (tutti del nord Europa, tutti nella fascia alta del reddito medio pro-capite, tutti poco popolosi e molto competitivi su scala planetaria) sono portatori di una linea di ulteriore (e drastico) ridimensionamento degli impegni, poiché avversano la linea di nuova distribuzione dei contributi da versare in base al reddito medio della popolazione, volta ad ottenere che i paesi più ricchi aiutino quelli più poveri.

Alfiere di questa impostazione ostile alla volontà “solidale” immaginata a Bruxelles è il premier (socialista) svedese Stefan Lofven, che addirittura non intende rinunciare allo sconto (“rebate” in termini tecnici) applicato sin qui.

“C’è bisogno di più tempo”, dice il presidente del Consiglio europeo Charles Michel (già primo ministro del Belgio) e forse ha ragione. Però sembrano tagliate su misura per lui le parole della von Der Leyen: “dobbiamo continuare a lavorare, il tempo è poco”.

Poco o tanto che sia il tempo a disposizione e poco a tanto che sia quello necessario per raggiungere un accordo, dal primo round di lavoro in comune tra i capi di governo post Brexit l’Europa esce politicamente a pezzi, proprio quando avrebbe dovuto mostrare al mondo la sua ritrovata coesione. Anche perché dietro la posizione dei quattro Paesi che contestano la linea di maggior peso del bilancio europeo si staglia la sagoma perfettamente riconoscibile della Germania, che evita di prendere esplicitamente posizioni euroscettiche ma poco o nulla fa per convincere Paesi tradizionalmente a lei legati a doppio filo.

Diciamolo allora, per quanto possa apparire sgradevole. Il vincitore del primo summit Ue dell’era Brexit si chiama Boris Johnson, che vince pure senza partecipare.



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