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Chi ha vinto (e chi ha perso) in Afghanistan. Il commento del gen. Arpino

E così i Talebani, dopo aver costretto i Russi al ritiro dopo dieci anni di combattimenti e 13 mila morti, con un’altra guerra durata il doppio hanno vinto anche sulla Nato, gli Stati Uniti e le coalizioni da loro chiamate alle armi. C’è qualcun altro che ci vuol provare? Abbandonando al proprio destino tutto ciò che è stato faticosamente costruito, dopo aver chinato il capo non ci resta che augurare loro lo stesso successo anche contro lo Stato Islamico ed al-Qaeda, sempre che abbiano davvero la compiacenza di volerli combattere. E magari, visto che sono così forti, anche contro i clan che riforniscono mezzo mondo di oppio ed eroina.

Gli “studenti coranici” pregustavano da molto questa vittoria. Una prima volta hanno esultato quando, il 28 dicembre 2014, il generale John Campbell, dopo aver ammainato il vessillo dell’Isaf ed innalzato quello di Resolute Support, annunciava che le truppe rimaste sul territorio cessavano ogni ruolo di combattimento, essendo ormai stata ceduta ai locali, nelle province, la piena responsabilità. Poche ore dopo aver elogiato i contingenti per “…aver sottratto il popolo al buio della disperazione, restituendo loro la fiducia nel futuro”, riceveva in cambio dal portavoce dei Talebani questo commento (testuale): “Stanno scappando, non essendo riusciti a sconfiggerci. La loro missione è stata un vero fallimento, come dimostra anche la cerimonia odierna”.

In effetti, se noi, sia pure con un contingente ridotto, su richiesta di Barack Obama continuavamo a svolgere egregiamente la nostra non del tutto nuova missione in Resolute Support, inglesi e francesi, seguiti non molto dopo dagli spagnoli, avevano immediatamente colto l’occasione per lasciare l’Afghanistan con largo anticipo.

Campbell aveva un po’ esagerato, e il popolo afghano non ha molti motivi per stare tranquillo. Il benessere e la democrazia non si misurano, soprattutto in quei Paesi, dal numero di tornate elettorali svolte dopo le Twin Towers. Anche l’Iraq ne è esempio convincente. Va anche detto, a onor del vero, che nell’area Ovest, dove noi siamo presenti da più tempo, la vita sta tornando quasi normale, ci sono l’acqua e la luce e a molte ragazze le famiglie permettono persino di andare a scuola. Ecco, queste famiglie non saranno contente che nell’accodo firmato a Doha il problema delle donna e quello dei diritti umani non abbiano trovato spazio.

Anche gli altri contingenti avranno sicuramente operato altrettanto bene. Però, se andiamo a leggere con attenzione i rapporti dell’Onu, osserviamo che pace e benessere, nel Paese, sono beni ancora fuori portata. Si conferma che nelle province (oltre un terzo) dove i Talebani sono già rientrati e “comandano” tutto è tornato come prima, i bambini vittime civili sono triplicati in sette anni, la mortalità infantile è le più alta del mondo, la corruzione dilaga, il business della droga si è fortemente incrementato, la tossicodipendenza interna è aumentata del 650 per cento, nell’esercito e nella polizia vi sono alti tassi di diserzione, insubordinazione e passaggio al nemico, i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni hanno superato persino i siriani.

Per quanto riguarda l’impegno di combattere l’Isis (inviso ai Talebani) e forse anche al-Qaeda (che invece li supporta), qualche speranza c’è, e dipenderà molto dagli accordi successivi che i mullah vorranno (se lo vorranno davvero) fare con il contestato governo uscito dalle ultime elezioni. In effetti i Talebani non sono mai stati diretta minaccia per l’Occidente in quanto tale. Nella loro agenda c’è sempre stato sopra tutto il dominio integrale del Paese, con il fermo proposito di governarlo secondo la loro interpretazione integrale della legge islamica. Per questo combattono non solo gli stranieri infedeli, ma anche gli jihadisti infiltrati nel territorio. Tra questi distinguono tra al-Qaeda, della quale condividono l’ideologia integralista, e l’Isis, che, al contrario, in loco ha anche ambizioni statuali e territoriali. Quindi, va combattuto.

Con la firma apposta alla presenza di Pompeo sull’accordo di Doha, la guerra in Afghanistan è destinata a terminare? Assolutamente no. L’Afghanistan è un paese in guerra da sempre, là nessuna guerra è mai finita. Ci potrebbe essere, e non è detto, un intervallo fino a quando tutta la coalizione di Resolute Support se ne sarà andata, purché faccia presto. Ma i fatti ci dicono che negli intervalli gli afghani non hanno mai trovato di meglio che combattersi tra loro. Nonostante i 350 mila soldati addestrati e ai 250 mila poliziotti preparati per assicurare la sicurezza interna, in mano ai talebani – in grado di sopraffare anche il governo legittimo – tutto tornerà come prima.

Allora, è davvero maturato il tempo per andarcene? Assolutamente no, ma dobbiamo purtroppo renderci conto che questo tempo non maturerà mai. Tanto vale decidere presto e farlo bene, con ordine e secondo le regole, seguendo le priorità che non da oggi stanno emergendo. E dobbiamo anche farlo senza rammaricarci troppo, sebbene oggi la realtà vera sia che noi abbiamo perso e loro hanno vinto.

Ci resta la buona coscienza di aver compiuto bene il nostro dovere e la speranza di essere riusciti a seminare qualcosa che, forse per molti anni, rimarrà segreta nel cuore di una parte del popolo. Chissà, prima o poi, potrebbe perfino germogliare.



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