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Cosa dimostra la morte di Li Wenliang in Cina

La notizia della morte dell’oftalmologo dell’ospedale di Wuhan, Li Wenliang, è su tutti i giornali da ieri sera. I primi a parlarne sono stati i media cinesi che hanno innescato un processo rocambolesco che ha dimostrato come il potere della Cina, per quanto impressionante, rimane fragile. Il caso va affrontato perché cartina tornasole del comportamento di Pechino.

Li, che aveva contratto il virus 2019-nCoV da una donna che aveva in cura per un glaucoma, era stato tra i primi a denunciare la diffusione del nuovo coronavirus. Già a dicembre dello scorso anno, aveva sospettato che le varie polmoniti che stavano arrivando nell’ospedale di Wuhan in cui lavorava – poi diventato epicentro della crisi virale – potessero essere collegate a qualcosa di simile alla Sars (gemella dell’attuale virus). Aveva allora espresso le sue ipotesi in una chat di gruppo ed evidentemente tutto era arrivato sotto l’occhio pressante delle autorità. Era stato subito fermato e interrogato. Costretto addirittura a firmare una dichiarazione in cui ammetteva di aver compiuto un’attività “illegale” — aver parlato pubblicamente della situazione — e fatto circolare informazioni allarmistiche.

Se non che poche settimane dopo le autorità centrali avevano confermato la presenza di 2019-nCoV. A quel punto era stato scagionato dalle accuse e riabilitato alla professione. Successivamente è stato contagiato. Ha raccontato la sua storia sui social network ed è diventata virale. Da lui in definitiva si è saputo della censura e dei ritardi con cui i cinesi hanno deciso di affrontare la crisi. Un atto considerato eroico, che lo aveva portato a esporsi contro le chiusure del Partito e aveva contribuito a costringere Pechino a scoprire le carte.

Questa importanza simbolica ha investito anche la sua morte, gestita malamente dalla propaganda del governo. Giornali come il Quotidiano del Popolo (l’organo stampa del Partito Comunista cinese) e il collegato Global Times avevano pubblicato la notizia delle morte commentandola come un “dolore nazionale”, e anche l’Oms aveva espresso il proprio cordoglio. Ma proprio dall’account Twitter dell’Organizzazione mondiale della sanità era partito una sorta di retrofront: il tweet sulla morte cancellato e sostituto da un altro che sosteneva che non c’erano ancora informazioni certe. Poi l’ospedale di Wuhan, dove Li era ricoverato, aveva smentito tutto e i giornali del Partito avevano addirittura cancellato tutti gli articoli in cui parlavamo della scomparsa del medico. Veniva dato solo “in gravi condizioni”. Qualche ora dopo, veniva data nuovamente la notizia della sua morte. Stavolta in modo definitivo.

La vicenda del medico segna un simbolo su come la Cina abbia gestito, e stia continuando a gestire, la situazione. Ma non solo nei riguardi del mondo esterno, ma anche agli occhi dei propri cittadini. L’assenza di trasparenza mai come in questo caso è sentita. Tantissimi i messaggi pubblici di proteste diffusi soprattutto attraverso i social network — un ambiente che è costantemente sotto la lente della autorità e che espone dunque gli utenti a potenziali ritorsioni. Il sinologo Bill Bishop, autore di “Sinocism” la più famosa newsletter sulla Cina al mondo, centra il punto: “In crisi precedenti come il terremoto di Wenchuan, l’esplosione a Tianjin, l’incidente del treno di Wenzhou la stragrande maggioranza dei cittadini cinesi erano spettatori che commentavano un evento, che li fece arrabbiare, ma che era lontano. In questa epidemia nessuno è solo uno spettatore, tutti sono direttamente colpiti”. Anche per questo sale la rabbia tra la popolazione.

I contagiati, secondo i conteggi ufficiali aggiornati quotidianamente, sono 31500, con 683 morti – tutti in Cina escluso un caso nelle Filippine. Nelle ultime 24 ore sono morte 73 persone e si sono stati almeno 3100 nuovi contagi (quasi tutti a Wuhan, la metropoli delle provincia di Hubei da cui è iniziata l’epidemia). Ieri i medici dello Spallanzani di Roma hanno segnalato il primo italiano colpito dal nuovo coronavirus: è uno dei 56 connazionali rientrati con un volo speciale lunedì 3 febbraio da Wuhan. L’epidemia è attiva, e ancora i virologi non sanno dare la risposta definitiva se sia o meno in contrazione – o se c’è da aspettarsi un picco la prossima settimana. Oggi Donald Trump ha diffuso il suo supporto alla Cina. Secondo quanto dice il presidente americano, dopo aver avuto una conversazione con il segretario del Partito comunista cinese, Xi Jinping, “sento che le cose stanno andando bene” e “grande disciplina si sta verificando in Cina, in quanto il presidente Xi guida fortemente quella che sarà un’operazione di grande successo”.

La postura di Trump è comprensibile. La dimostrazione di apertura è anche funzionale al proseguire dei colloqui sul piano economico-commerciale intavolati grazie alla fiera sulla “fase-1” di un accordo con cui il presidente vuole limare lo sbilancio economico e presentarlo agli elettori come un successo in vista delle prossime presidenziali. La condizione attuale però è diversa. Lo storico Walter Russel Mead sul Wall Street Journal (il più trumpiano dei giornali americani) la dipinge in modo superbo. Un estratto del suo ultimo saggio, “La Cina è il vero malato dell’Asia”: “La risposta iniziale della Cina alla crisi è stata meno che impressionante. Il governo di Wuhan è stato riservato e egocentrico; le autorità nazionali hanno risposto vigorosamente ma, al momento, sembra inefficace. Le città e le fabbriche cinesi stanno chiudendo; il virus continua a diffondersi. Possiamo sperare che le autorità riescano a contenere l’epidemia e curare le sue vittime, ma la performance fino ad oggi ha scosso la fiducia nel Partito comunista cinese in patria e all’estero”.

 



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