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Incontro Cina-Vaticano. Dalla sindrome del contagio al contatto

L’incontro tra il ministro degli esteri cinese e il responsabile per i rapporti con gli Stati del Vaticano, praticamente l’omologo del ministro cinese, è stato giustamente definito un evento di assoluto rilievo. Wang Yi e il suo omologo monsignor Paul Gallagher, in foto, si sono visti ieri a Monaco, ha dichiarato il Quotidiano del popolo, organo del Partito comunista cinese (Pcc), in occasione della Conferenza sulla sicurezza.

Sono passati quasi settant’anni dal 1951, quando l’ultimo Nunzio Apostolico a Pechino fu espulso, guarda caso per la sua irritata reazione alla pretesa del Partito Comunista di avere in Cina una Chiesa cattolica autonoma da Roma. Altro elemento estremamente importante, al di là del dato simbolico, è che il “contatto” è stato favorito dal “contagio”. La grande paura per il coronavirus e del coronavirus ha creato la sindrome del contagio, della separazione dalla Cina e dai cinesi. Una sindrome alla quale il Vaticano ha risposto esprimendo al più alto livello e ufficialmente vicinanza, solidarietà.

Il rifiuto del contagio anti-cinese sembra dunque aver portato al contatto. Se è possibile immaginare un uso contro la Cina della sindrome-contagio, è possibile anche immaginare un valore empatico del rifiuto della sindrome e quindi la convinta solidarietà con tutta la Cina e i cinesi in questo momento di difficoltà.

Contatto e contagio, un binomio che si intreccia con quello “fatto e agenda del fatto”. Il fatto in questo caso è certamente più importante della sua agenda, per quel che è stato e per quel che sappiamo.

Stando a quanto sappiamo l’agenda del colloquio ha riguardato l’accordo provvisorio già raggiunto tra Cina e Santa Sede (non Vaticano) sul problema dei criteri di nomina dei vescovi cattolici in Cina e sulla volontà reciproca di procedere. Dunque nulla si sarebbe detto sulle relazioni diplomatiche, che non ci sono. È così? Possibile che sia così, io direi probabile che sia così. Ma l’agenda conta meno del fatto. Anche se non si è parlato di sviluppi diplomatici, cioè dell’arrivo di un ambasciatore di Pechino in Vaticano e di un Nunzio a Pechino, è chiaro che quello che si è visto nelle ore trascorse è stato un incontro tra il soft power e l’hard power. Il rifiuto della paura contagio ha favorito il contatto, il contatto forse ha ridotto il peso della paura psicologica (e non solo) del contagio.

Anche con il coronavirus questo rimane il secolo cinese e il Vaticano lo sa da ben prima che questo secolo cominciasse. L’idea di trovare un linguaggio possibile accompagna tutti i papi dai tempi di Paolo VI. Nonostante alcune resistenze la consapevolezza di quanto questo sia importante è diffusa a Roma, con una diversa priorità rispetto a quanto sia diffusa a Pechino questa stessa consapevolezza. Pechino ha capito da tempo che l’illusione di poter estirpare le religione è destinata a restare tale, meglio cercare l’armonia sociale anche con loro che illudersi di poterne creare una contro di loro.

Aver trasformato la sindrome da contagio in un’opportunità di contatto è il merito del Vaticano, che ha trasformato un problema in una risorsa. Ma per chi? Per i suoi calcoli? Forse non tanto, o non soltanto. Forse il Vaticano può aver considerato l’opportunità di stabilire i rapporti con Pechino in un’agenda comunque ufficiale, ma perché? Per favorire un più ordinato e meno conflittuale ruolo cinese nel nuovo mondo del nuovo secolo. Più che esasperare il conflitto commerciale, è accorciare la distanza culturale che può favorire la ricerca di un’armonia multipolare nel mondo che si va delineando con tante asprezze, tante incomprensioni, ma anche nuove potenzialità.

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