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Conte e il Vaticano, il feeling c’è ma il partito no. Parla Damilano

L’avvicinamento tra Giuseppe Conte e il Vaticano non prelude alla nascita di alcun partito dei cattolici ma risponde, più che altro, alla reciproca esigenza di instaurare un dialogo attraverso cui rappresentare e dare sostanza alle rispettive posizioni e aspirazioni. “È il simbolo di una ricerca di interlocuzione”, ha commentato in questa conversazione con Formiche.net Marco Damilano, che di questi mondi, e di queste dinamiche, si intende come pochi in Italia. D’altronde il direttore dell’Espresso è stato allievo dello storico ed esponente del cattolicesimo democratico Pietro Scoppola e ha mosso i suoi primi passi da cronista nel settimanale dell’Azione Cattolica. C’era anche lui qualche giorno fa alla Civiltà Cattolica per il dibattito (qui il racconto fotografico di Umberto Pizzi) cui hanno partecipato, oltre al direttore della rivista dei gesuiti Antonio Spadaro, lo stesso premier e il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin. Un incontro emblematico ed evocativo che, secondo le ricostruzioni di questi giorni di alcuni quotidiani, potrebbe addirittura portare alla nascita di una sorta di nuova Democrazia cristiana guidata da Conte. Damilano, però, la pensa diversamente.

Che valutazione si può dare dell’atteso dibattito di sabato scorso alla Civiltà Cattolica?

È il simbolo di una ricerca di interlocuzione. Il Vaticano – nell’occasione rappresentato dal segretario di Stato Pietro Parolin, in fondo l’omologo del nostro presidente del Consiglio – ha alle spalle un periodo difficile con il governo italiano, soprattutto sul tema migranti. D’altro canto Conte – che sta costruendo il suo futuro politico – ha bisogno di presentarsi come l’uomo di fiducia di varie istituzioni. A partire proprio dal Vaticano, una delle forze che legittimano nel nostro Paese qualunque addizione politica, specie quelle che portano verso l’incarico istituzionale più alto. Ovvero, la presidenza della Repubblica.

Arriveremo al Quirinale tra poco. Cosa l’ha più colpita del discorso del cardinale Parolin

Il riferimento alla cittadinanza che per i Paesi arabi nati dalla decolonizzazione e dalla Prima guerra mondiale si è sempre identificata con il confessionalismo. Per evitare che si arrivi allo Stato islamico bisognerebbe aprire un ragionamento complesso sulla cittadinanza che è il simbolo di un pluralismo anche religioso oltreché politico. E poi ha affermato lo stesso concetto anche a proposito dei Paesi della sponda Nord del Mediterraneo, Italia compresa: a suo avviso, pure nel Vecchio continente potrebbe porsi un problema sulla cittadinanza visto che sta avanzando l’idea di nazionalismi a sfondo confessionale. Non ha naturalmente specificato ma l’allusione alla Lega che sventola il rosario e dice no allo Ius Soli e all’integrazione è sembrata chiara.

Perché, a suo avviso, questo dialogo non precede la nascita di un partito cattolico o dei cattolici?

Perché nel pontificato di Bergoglio non esiste e non è mai esistito il progetto non dico di un partito cattolico – che non c’è mai stato, neanche nelle fasi più integraliste – ma neppure, come si usava dire ai tempi della Dc, di ispirazione cristiana. Il discorso in cui Francesco ha per così dire dato la linea sul tema – quello pronunciato durante il Convegno Ecclesiale di Firenze del 2015 – da questo punto di vista è chiarissimo: disse di impegnarsi, anche in politica, ma non all’interno di un unico contenitore che Bergoglio ritiene anacronistico. E che nella sua esperienza non esiste visto che in Argentina non c’è mai stata una Democrazia cristiana mentre invece, ad esempio, in Cile sì.

E allora questo avvicinamento a cosa condurrà? Da che dipende?

Esclusa l’idea che possa nascere una forza di quel tipo, resta il problema degli interlocutori. È qui che i punti si incontrano. Conte non vuole fare il capo di un partito ma avere un ruolo di primo piano così come la Chiesa di Bergoglio non è interessata alla costruzione di un movimento politico ma a figure che siano in grado di rispondere ad alcune istanze come l’ambiente, l’uguaglianza, l’integrazione religiosa e dei popoli, la pace. Due esigenze che sono dunque speculari: uno vuole fare il leader ma senza partito e gli altri vogliono ispirare la politica senza però organizzare un esercito.

Prima ha evocato il Quirinale e la corsa al successore di Sergio Mattarella. Anche questa partita incide, a suo avviso, nei rapporti tra Conte e Vaticano?

Il 31 gennaio scorso il Capo dello Stato è entrato negli ultimi due anni di mandato, solitamente il periodo in cui le varie candidature e auto-candidature cominciano a uscire allo scoperto. Da quando Conte ha iniziato ad assumere un’autonoma identità politica – nei mesi che hanno preceduto la caduta del governo gialloverde – ha sempre cercato di rivendicare la sua appartenenza al cattolicesimo democratico. Su questo aspetto penso ci sia però molto da interrogarsi, innanzitutto perché gli esponenti di quella cultura politica hanno sempre fieramente avversato la destra. Ma non solo.

A chi si riferisce?

Ad esempio ad Alcide De Gasperi: arrivò praticamente a litigare con Pio XII che voleva fare una lista a Roma con le destre e la Dc contro le sinistre. La cosiddetta Operazione Sturzo del 1952. Quell’opposizione costò a De Gasperi la mancata udienza da parte di Pio XII alla quale il leader Dc rispose con una protesta formale: disse che da credente, pur accettando la decisione pontificia, si sentiva umiliato ma come presidente del Consiglio chiese spiegazioni alla Santa Sede. Un esempio di laicità dello Stato. Oppure in quest’ottica penso ad Aldo Moro cui Conte si rifà sempre. Lo stesso Conte che però ha governato con la destra di Matteo Salvini.

Cos’altro non la convince della narrazione di Conte come rappresentante del cattolicesimo democratico?

Il cattolicesimo democratico è una cultura politica che poi ha trovato forma dentro la Dc. Mi pare che Conte, invece, rivendichi il suo percorso individuale e singolare che si compone anche di momenti di formazione – tra cui il suo periodo di studio a Villa Nazareth, alla casa degli studi del cardinale Achille Silvestrini e prima ancora del cardinale Domenico Tardini – ma che non ha mai incrociato quella comunità che è stata parte integrante del cattolicesimo democratico. E mi riferisco non solo ad esponenti politici come Aldo Moro, Benigno Zaccagnini e Tina Anselmi ma anche a professori e giuristi tra cui Leopoldo Elia, Pietro Scoppola e Niccolò Lipari. Tutti uniti dall’appartenenza a una stessa comunità intellettuale e politica: nessuno di loro ha compiuto un percorso singolo, si sono sempre trovati all’interno della comunità. Per Conte, invece, è diverso: il suo è stato, ed è, un cammino individuale. È arrivato al potere e ha svelato al mondo di sentirsi un cattolico democratico.

Questa rappresentazione di Conte come leader cattolico in che modo incide sugli alleati di governo e su Italia Viva in particolare?

Chiaramente aumenta la bagarre in quell’area che potremmo chiamare centrista, candidata a rappresentare le istanze del mondo cattolico. Conte è un altro personaggio che piomba in un parterre molto affollato. Non è un caso che non stia molto simpatico a Matteo Renzi e Carlo Calenda.

In questo contesto non si può dimenticare l’intervista che qualche mese fa il cardinal Camillo Ruini ha rilasciato al Corriere della Sera sulla necessità di un dialogo tra la Chiesa e Salvini. Come dobbiamo leggerla, anche alla luce dell’incontro di sabato alla Civiltà Cattolica?

Bisogna fare una distinzione tra il Vaticano e la Chiesa italiana. L’incontro di sabato vedeva rappresentato il primo, vista la presenza del cardinal Pietro Parolin, il più importante collaboratore del papa. La Chiesa, invece, fatica non poco a seguire il messaggio a volte dirompente di Francesco. Camillo Ruini – in quell’intervista così importante rilasciata ad Aldo Cazzullo – ha fatto due operazioni: ha dato voce a quella parte di mondo cattolico e di episcopato che si sente a disagio con questo pontificato e ha inviato un segnale politico a Matteo Salvini. Il quale però, a quanto pare, non l’ha capito.

Cominciamo dalla prima operazione…

Basta pensare a tal proposito che alcune delle tradizionali sedi cardinalizie del nostro Paese in questo momento non hanno un titolare. Penso a Venezia e Torino ma anche a Milano. Il segno del contrasto con la precedente stagione ruiniana. Un disagio c’è e Ruini con quella intervista gli ha dato voce.

E sul piano politico invece?

Ruini ha rivendicato di essere stato uno dei costruttori del centrodestra berlusconiano della Seconda Repubblica e al tempo stesso ha cercato di dire che bisognerebbe fare la stessa operazione pure con Matteo Salvini. Non una benedizione nei suoi confronti, intendiamoci, ma l’invito ad abbandonare i toni più radicali. Se il leader della Lega lo avesse fatto, quest’ala della Chiesa sarebbe stata disposta a prenderlo in considerazione come possibile interlocutore. Un passaggio molto importante perché ha rotto l’isolamento di cui Salvini – reduce dalla batosta estiva – era vittima in quel momento.

Cos’è successo dopo però?

Salvini non ha seguito il consiglio e si è attaccato al citofono. L’intervista di Ruini è stata politicamente importante ma l’interlocutore non ha recepito il messaggio. E infatti ha perso.



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