Secondo tempo. Riprende la partita geopolitica innescata dal coronavirus. Nel suo ultimo report l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’organismo dell’Onu impegnato a gestire l’emergenza sanitaria globale nata a Wuhan, ha ribattezzato Taiwan, l’isola da 23 milioni di abitanti a sud della Cina considerata dal governo cinese un’estensione territoriale cinese ma de-facto indipendente dal 1949, “Taipei e i suoi dintorni”.
Tanto è bastato per far insorgere il governo taiwanese di Tsai Ing-wen, da sempre sostenitrice della causa indipendentista e riconfermata con ampio margine per un secondo mandato alle elezioni dello scorso 11 gennaio. Taiwan, ad oggi, ha ben 13 casi di coronavirus confermati, ma non ha accesso a informazioni e canali diretti con l’Oms che continua a rapportarsi con la Cina, considerando Taiwan e le sue autorità una semplice provincia della Città Proibita. Non è una novità che l’Onu non riconosca Taiwan, con cui i rapporti diplomatici formali sono stati interrotti (insieme a gran parte della comunità internazionale) nel 1971 con il riconoscimento ufficiale della Repubblica popolare cinese.
Il problema, denunciano le autorità di Taipei, è che l’esclusione dell’isola auto-governata da qualsiasi processo decisionale all’Oms impedisce di avere un quadro sull’emergenza coronavirus e di intervenire. Le informazioni fornite da Pechino, accusa il governo di Tsai, sono intenzionalmente distorte.
La protesta taiwanese è stata subito raccolta dagli Stati Uniti. Questo giovedì il governo americano ha intimato all’Oms di “rapportarsi direttamente” con Taiwan nella gestione dell’emergenza sanitaria. L’ambasciatre Usa all’Oms Andrew Bremberg, riporta Reuters, ha definito “un imperativo tecnico che l’Oms presenti dati accessibili sulla sanità pubblica a Taiwan in qualità di area affetta”. Non si è fatta attendere la reazione cinese. La delegazione di Pechino ha espresso “forte insoddisfazione” per gli Stati che mettono in discussione lo status di Taiwan.
L’esclusione di Taiwan ha ricadute pratiche immediate nell’emergenza. Le autorità governative, ad esempio, non possono condividere con la comunità medica internazionale i loro risultati, né partecipare alla riunione di maggio dell’Assemblea mondiale della sanità, l’organo governativo dell’Oms. La stessa situazione si era verificata nel 2003 con l’emergenza Sars: per ottenere dati considerati “affidabili” il ministero della Sanità taiwanese preferisce fare affidamento sulle informazioni fornite da governi amici come Stati Uniti e Giappone.
Riconosciuto come “osservatore”, il governo taiwanese è stato indicato con più nomi all’interno degli organi Onu, come “Taiwan, Cina” o, semplicemente, “Taipei”. “Taiwan è Taiwan e non una sezione della Repubblica popolare cinese” ha tuonato su Twitter il ministero degli Esteri taiwanese taggando l’Oms.
Non è la prima volta che la questione taiwanese riemerge in un organo Onu da quando è scoppiato l’allarme coronavirus. Lo stesso braccio di ferro diplomatico è di recente andato in scena all’Icao (Organizzazione internazionale dell’aviazione civile), l’organo delle Nazioni Unite preposto alla regolamentazione della navigazione aerea internazionale. Presieduta dalla neo-eletta cinese Fang Liu, l’organizzazione è finita pochi giorni fa al centro delle polemiche per aver bloccato su Twitter profili di utenti favorevoli all’indipendenza di Taiwan.
Dal 2013 il governo dell’isola non può partecipare alle assemblee dell’Icao. Un bando che prosegue oggi durante la gestione emergenziale del virus e delle rotte aeree in cui Taiwan è trattata alla stregua di una qualunque provincia cinese. Questa, in verità, è la linea abbracciata anche dal governo italiano, che ha incluso anche Taiwan nel repentino blocco dei voli da e per la Cina suscitando una protesta formale del mondo diplomatico taiwanese.