La campagna di stampa sull’arresto dello studente egiziano Patrick George Zaki ha riportato l’attenzione al tema delle esportazioni militari che, secondo alcuni commentatori, dovrebbero essere utilizzate per fare pressione nei confronti dei governi accusati di operare violazioni dei diritti dell’uomo e, in particolare, della libertà di criticare e manifestare opposizione alle loro scelte.
Per chi crede nella democrazia e nei suoi valori fondanti, la critica e la condanna dei regimi più o meno autoritari è parte del proprio Dna. Proprio per questo vi dovrebbe essere una reazione fisiologica diretta a qualsiasi caso di repressione nei confronti degli oppositori (sempre che questi si muovano nei confini della protesta pacifica). Questo dovrebbe valere indipendentemente dalla distanza, dimensioni, razza, religione, ma, soprattutto, dagli interessi economici in gioco.
DUE PIANI SEPARATI
Il tenere separata la condanna morale (e, fino ad un certo punto, anche “politica” di questi regimi, con la dovuta gradazione in rapporto al livello di violazione dei diritti che si ritengono incomprimibili) dalla politica estera è un elemento importante per garantire l’autonomia e l’indipendenza della posizione che si va ad assumere. Più i due piani sono tenuti separati e meno si sarà condizionati e condizionabili. E più la posizione potrà essere condivisa anche sul fronte interno: così, infatti, si evita di mettere in contrapposizione gli interessi di chi rischia il posto di lavoro o l’attività imprenditoriale e quelli di chi non ha nulla da perdere. Inoltre, si elimina anche il rischio di essere strumentalizzati all’interno della sempre più feroce competizione sul mercato internazionale.
Non vi è dubbio che la politica esportativa militare rientri nella più generale politica estera di ogni paese, compreso il nostro. Anche a prescindere dai controlli esercitati nei confronti delle esportazioni militari, queste ultime comprendono necessariamente una collaborazione sul piano della manutenzione, riparazione, addestramento, aggiornamento tecnologico, spesso nel quadro di accordi intergovernativi sempre più ampi. Per questo il Parlamento ha approvato nel dicembre scorso una modifica della normativa italiana per consentire anche accordi governo-governo, all’interno dei quali il ministero della Difesa possa intervenire direttamente a supporto del Governo che intende acquistare equipaggiamenti militari prodotti dalle nostre imprese.
DIPLOMAZIA, NON INTERFERENZA
Nel complesso e confuso mondo globalizzato quasi tutti i nuovi attori cercano di dotarsi di una propria capacità di difesa e sicurezza a salvaguardia della loro indipendenza e, in alcuni casi, sopravvivenza. Sono, quindi, spinti a individuare partner esteri affidabili e, in generale, anche attenti a limitare ogni forma di interferenza nei loro affari interni. Questo non significa che questi ultimi debbano essere indifferenti o fingere di non vedere e non sapere – cosa per altro impossibile con il livello raggiunto nella circolazione delle informazioni – ma che dovrebbero muoversi con cautela nel momento in cui rischiano di far pensare di voler imporre i loro modelli politici e culturali.
Nei Paesi più giovani e più deboli, è, per altro, più forte il sentimento di identità nazionale che inevitabilmente coinvolge le proprie Forze armate e le loro capacità, compresi gli equipaggiamenti in dotazione. Il cercare di condizionarli attraverso il rifiuto di forniture militari può, al contrario degli intendimenti, spingere ad una forma di auto-difesa del proprio sistema politico.
Un conto è esercitare un’adeguata pressione diplomatica, un altro è bloccare apertamente e pubblicamente commesse in corso o potenziali. Ancora più grave è se, come in questo caso, le ipotizzate forniture non nascono nel quadro della normale promozione commerciale svolta dalle imprese, ma in quella di un confronto politico e militare. In questo caso, infatti, i contraccolpi sarebbero molto più ampi e, per certi versi, incontrollabili.
INEFFICACIA E DOPPIOPESISMO
Un altro aspetto da considerare è quello del perimetro delle esportazioni che si vorrebbero “congelare”. Perché solo quelle militari? Un Paese equipaggia le proprie Forze armate per difendersi. Se anche, per assurdo, lo indebolissimo, perché il regime dovrebbe diventare meno repressivo? O forse qualcuno ipotizza che, a causa dell’eventuale conseguente debolezza militare, potrebbe cadere per un attacco esterno o per una protesta interna? È questo l’obiettivo che si vuole perseguire? In realtà, nemmeno gli “embarghi” più ampi si sono dimostrati efficaci, come ha dimostrato tutta la loro storia a partire da quello deciso dalla Società delle Nazioni contro l’Italia dopo il nostro attacco all’Etiopia nel 1935. In ogni caso, una decisione unilaterale italiana porterebbe solo a fare spazio ai nostri numerosi concorrenti.
Colpisce poi, in questo caso, la logica dei due pesi e due misure che sembra caratterizzare il dibattito in Italia. Non si è, infatti registrata una protesta analoga a quella che è cominciata verso l’Egitto nei confronti della Turchia per la repressione avviata dopo il tentativo di “colpo di stato” del 2016 o nei confronti della Cina per quanto sta avvenendo da quasi un anno ad Hong Kong o dell’Iran per la repressione delle proteste popolari in questi ultimi mesi o, infine, nei confronti del Venezuela per aver spinto milioni di cittadini a fuggire all’estero.
Da queste riflessioni deriva la necessità di mantenere separati i due piani: da una parte, aperta critica agli atteggiamenti illiberali, portata anche con le dovute forme all’interno dei rapporti bilaterali governativi, dall’altra, il rafforzamento del rapporto di collaborazione con alcuni paesi chiave per i nostri interessi nazionali. Con la consapevolezza che i regimi passano, ma i paesi e le loro istituzioni, fra cui le forze armate, restano.
Articolo pubblicato su AffarInternazionali.it