Non è certamente casuale la visita di oggi a Kabul da parte del segretario alla Difesa Usa Mark Esper e il Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg, proprio mentre le delegazioni degli Usa e dei Talebani si incontrano in Qatar per siglare un accordo di pace che potrebbe porre fine ad una guerra durata quasi due decenni. Non sarà certamente un accordo sufficiente a risolvere alla radice i problemi dell’Afghanistan, per il quale la guerra dura ininterrottamente dall’invasione sovietica del 1979 e nel quale il tempo è scandito anche nel sentire comune dall’alternarsi ininterrotto di fighting seasons più che dallo scorrere delle classiche stagioni astronomiche.
A una probabile ed almeno iniziale incapacità delle ultime generazioni di confrontarsi con le esigenze e con gli usi della pace, infatti, nei quali non è solo la forza delle armi a giocare un ruolo importante, si aggiunge a complicare la situazione anche la comparsa di altre realtà altrettanto pericolose, come la versione centroasiatica dello Stato Islamico che ha già insanguinato Siria e Iraq. Ma non c’è dubbio che si tratta di un momento storico quello al quale stiamo assistendo. E storico, e inedito, è il riconoscimento da parte dell’amministrazione Usa dell’impossibilità di avere ragione di un’opposizione politica e militare che si dimostra molto radicata nel tessuto sociale afghano, nonché capace di sopravvivere a quasi vent’anni di guerra contro la più potente alleanza militare del mondo, la Nato, e contro tecnologie militari statunitensi che le hanno causato molte perdite, senza esporre gli “occidentali” a conseguenze parimenti sanguinose.
Nonostante l’alto tasso di caduti tra i contingenti dell’ampia coalizione internazionale, infatti, sono stati soprattutto i soldati e i poliziotti del governo afghano a pagare un alto tributo di sangue alla guerra che si vorrebbe ora superare, nonché la popolazione stessa, schiacciata tra i due contendenti di uno scontro che gli riserva solo il ruolo delle vittime. Sì, al di là di ogni retorica e dovuta attenzione nei confronti della popolazione, sancita nero su bianco nella dottrina del Comprehensive Approach col quale la Nato si riprometteva di conquistare “cuori e menti” della gente per avere la meglio di un nemico che tra essa si confondeva, è il ruolo della vittima quello rimasto agli afghani, attratti da impossibili prospettive “occidentali” e al tempo stesso terrorizzati da una presenza talebana che, soprattutto nelle campagne, ha avuto buon gioco a imporsi e a confermarsi.
Ma un’altra vittima di questa guerra è il Government of the Islamic Republic of Afghanistan, che si vede improvvisamente escluso da un processo di pace tra il suo principale alleato e il suo più temibile avversario che reclamerà un prezzo che solo il GIRoA stesso sarà chiamato a pagare. Un prezzo in termini di “potere” difficile da quantificare dalla nostra prospettiva ma che richiederà una ricalibratura drastica degli equilibri politici e militari nel Paese. Certamente, la visita al recentemente confermato presidente Ghani da parte del Segretario alla Difesa Usa e del Segretario Generale della Nato serve proprio a tranquillizzare l’alleato afghano sul perdurare dell’interesse Usa, e subordinatamente Nato, per il destino dell’Afghanistan che ben difficilmente verrà completamente abbandonato.
Non lo abbandoneranno gli statunitensi, che probabilmente manterranno oltre ad una significativa presenza diplomatica nell’ambasciata di Kabul alcune basi militari dalle quali continuare la lotta al comune – sia col GIRoA che coi Talebani – nemico del Califfato. E, conseguentemente, dovrà essere ricalibrata anche la presenza degli altri paesi della Nato, primi fra tutti quelli che hanno sopportato il maggiore onere dell’operazione, come l’Italia responsabile per molti anni dell’ampia Regione Ovest. Per quel che riguarda il nostro Paese, ora impegnato – come tutti tranne gli statunitensi – solo in attività di mentoring, si tratterà presumibilmente di implementare un piano di ritiro dal Paese già elaborato nelle sue linee essenziali fin dal 2014. Il piano non è mai stato applicato nella sua interezza a causa dell’altalenanza delle scelte politiche degli Stati Uniti, combattuti tra la tentazione di abbandonare un’operazione pericolosamente prossima all’incubo generazionale vietnamita e la volontà di non lasciare spazi, col proprio ritiro, ad un ritorno russo sempre possibile, ancorché in forma più politica che militare.
A parte queste considerazioni di carattere politico, resta poi aperto il problema tecnico-militare del ritiro, parziale o totale che sia. L’ipotesi di una tempistica di 14 mesi per la sua conclusione pare certamente percorribile, ma non se ne possono nascondere le difficoltà. L’Afghanistan è, infatti, un teatro terrestre, raggiungibile unicamente per via aerea, data l’impossibilità pratica e politica di sfruttare il porto di Karachi in Pakistan o quello di Bandar Abbas in Iran. Sarà, insomma, necessario un ponte aereo considerevole, utilizzando aerei Antonov e Iliushin ucraini e/o russi, almeno da parte dell’Italia, per il recupero dei mezzi pesanti e limitando l’uso dei C-130J al trasporto del personale. Si dovrà inoltre tenere conto delle alte temperature estive e del probabile innevamento invernale che ridurranno le capacità di carico degli aerei e la fruibilità della pista di Herat. Da un punto di vista tattico, dato per scontato che l’accordo in essere porrà al riparo dai rischi connessi al progressivo ridimensionamento delle componenti operative, si potrà procedere abbastanza tranquillamente a differenza di quanto pianificato per il possibile ritiro nel 2015, senza però dimenticare la presenza crescente dello Stato Islamico che potrebbe essere tentato di ottenere un grosso risultato operativo e di immagine ai danni di forze sempre più esigue.
Detto questo, commetteremo però un’ingenuità se valutassimo i nuovi sviluppi afghani limitandoci ad esaminare soltanto quello che accade in quel Paese. Il tutto, infatti, deve essere collocato in una prospettiva più ampia che tenga conto di quello che sta accadendo in Medio Oriente, dopo l’uccisione del generale Suleimani e il pericolosissimo braccio di ferro che, in Siria, contrappone la Turchia – l’alleato che si temeva passato armi e bagagli col “nemico” russo – a Damasco stessa. Un braccio di ferro che rischia di coinvolgere Washington e Mosca, ma anche la Nato, per il controllo della provincia di Idlib da parte di un paese, la Turchia, che pratica una politica di espansione territoriale che si credeva – erroneamente – un anacronismo improponibile nel terzo millennio. In questo contesto mediorientale, tra l’altro, si era già verificato un appeacement di fatto tra Us, Turchi e jihadisti, primi tra tutti i qaidisti di Haiat Tahrir Al Sham, tutti uniti contro il presidente Assad, aprendo una strada che Trump pare voler ora percorrere fino alla fine in Afghanistan.
Insomma, se l’Afghanistan rappresenta ormai il passato, non è detto che un passaggio di testimone tra questo con il Medio Oriente, non rappresenti una prospettiva ancor più preoccupante per noi.