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I luoghi santi a Gerusalemme secondo il Piano di Trump. L’analisi di Molinaro

Di Enrico Molinaro

Incompetenza giuridica o genio diplomatico? La questione sorge analizzando in dettaglio la Sezione Cinque (dedicata a Gerusalemme) del cosiddetto Accordo del secolo (Deal of the century) lanciato ufficialmente dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump il 28 Gennaio 2020 col nome Pace per la prosperità. Una visione per migliorare la vita dei popoli palestinese ed israeliano. Le incongruenze e contraddizioni presenti nel testo sono frutto dell’ignoranza dei consulenti giuridici della Casa Bianca oppure, al contrario, del cosciente approccio negoziale dei diplomatici di Trump, fondato sull’ambiguità costruttiva (constructive ambiguity)?

L’ambiguità costruttiva è un’espressione generalmente attribuita ad Henry Kissinger, ex consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di stato degli Stati Uniti durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford tra il 1969 e il 1977, riferita all’uso deliberato di un linguaggio ambiguo su un argomento delicato allo scopo di permettere il raggiungimento di un obiettivo politico. Tale terminologia intenzionalmente vaga viene impiegata in un negoziato per dissimulare un’incapacità di risolvere una questione controversa sulla quale le parti restano molto distanti, consentendo allo stesso tempo a ciascuna di esse di rivendicare l’ottenimento di qualche concessione.

Il primo paragrafo, intitolato “Aspetti religiosi della questione di Gerusalemme”, della citata Sezione Cinque del testo di Trump ricorda che “Nel corso dei secoli XVIII e XIX, l’Impero ottomano aveva concesso ai cristiani “diritti legali” (“legal rights”) nei propri luoghi sacri in virtù di una serie di firmani (decreti imperiali), stabilendo così lo Status Quo cristiani (sic), riaffermato nell’Accordo Fondamentale tra Vaticano (sic) ed Israele nel 1993”.

Già analizzando primo paragrafo, sorgono immediatamente alcune questioni. Perché mai gli autori del testo hanno completamente ignorato la normativa multilaterale in materia di ben maggiore rilevanza giuridica, a cominciare dal Trattato stipulato dallo stesso Impero ottomano con “Gran Bretagna, Germania, Austria, Francia ed Italia” nel 1878? In virtù dell’articolo LXII del Trattato di Berlino “è vietata qualsiasi modifica nello Status Quo dei Luoghi Santi”. Un esame accurato di questo trattato internazionale avrebbe risparmiato ai visionari estensori di Trump l’imbarazzante domanda sul significato del citato primo paragrafo: si riferivano allo Status Quo nei Luoghi Santi, con le iniziali di entrambe le espressioni in maiuscolo, che si applica esclusivamente ai rapporti tra le comunità riconosciute, in questo caso cristiane tra loro? Oppure ad un non meglio identificato regime giuridico applicabile ai diritti legali (non a quelli illegali, per carità!) concessi ai cristiani in tutti i “loro edifici religiosi” presenti nell’area, e quindi esclusivamente nei rapporti tra potere territoriale e Chiese cristiane, secondo principi catalogati in Italia come diritto ecclesiastico? Ad essere onesti, questo primo paragrafo su Gerusalemme, più che un capolavoro di ambiguità costruttiva, sembra una perfetta ricetta per il caos giuridico, e di conseguenza politico-religioso. Da questo punto di vista, la preoccupante confusione tra Vaticano e Santa Sede nell’Accordo del secolo solleva qualche dubbio sulla capacità dei qualificati estensori di Trump siano in grado di afferrare la complessità della questione.

Analogo quesito si pone in relazione all’omissione nel testo esaminato del trattato internazionale più recente che menziona il citato Status Quo nei Luoghi Santi (con le iniziali maiuscole). Un nuovo frainteso artificio opera della loro astutissima tattica diplomatica, o tale negligenza è frutto di mera ignoranza e scarsa esperienza professionale?

Leggendo attentamente il seguente paragrafo della citata Sezione Cinque, intitolato SITI SACRI A GERUSALEMME (“JERUSALEM’S HOLY SITES”, tutto maiuscolo nel testo), sorge spontanea analoga domanda: “Lo Stato di Israele è elogiato per salvaguardare i siti religiosi di tutti e per mantenervi uno status quo religioso”. Questa frase potrebbe a buon titolo meritare il premio come la più costruttivamente ambigua della storia. Tali siti religiosi includono tutti gli edifici religiosi dell’area, oppure soltanto i Luoghi Santi disciplinati dal regime giuridico dello Status Quo, con le iniziali maiuscole? In effetti, lo status quo religioso è nel testo in oggetto inesplicabilmente con le iniziali minuscole: si intende così riferire questa espressione latina ad un regime giuridico distinto dallo Status Quo con le iniziali in maiuscolo menzionato precedentemente nel citato primo paragrafo della Sezione Cinque? Oppure in questo caso ci si riferisce al più ampio status quo di diritto ecclesiastico menzionato nella famosa – anche se raramente letta – Risoluzione di Spartizione 181 (II) adottata dall’assemblea generale ONU il 29 novembre 1947, che ne affidava la tutela al Corpus Separatum da istituire a Gerusalemme e dintorni, inclusa Betlemme?

L’ultima, ma non meno rilevante, questione nell’analisi ermeneutica della citata Sezione Cinque, dedicata a Gerusalemme nell’Accordo del secolo di Trump è proprio relativa al significato del termine Gerusalemme, specialmente in questo contesto semantico giuridico e geopolitico.

La magica risposta del testo di Trump sembra essere chiara e netta, nella sua definizione terminologica: “L’approccio di questa Visione è di tenere Gerusalemme unita”. Eppure, lo stesso testo visionario aggiunge poco più avanti: “Il Presidente ha reso anche chiaro che i confini specifici della sovranità israeliana a Gerusalemme saranno soggetti ai negoziati sullo status finale tra le parti”. Quindi, Gerusalemme va mantenuta unita, oppure le parti sono completamente libere di determinarne i confini nei negoziati sullo status finale, inclusa dunque una possibile divisione fisica della città?

Inoltre, quale sarebbe in questo contesto il significato del termine polisemico e fuorviante sovranità? Nel diritto internazionale, tale termine qui non potrebbe significare titolo (al territorio) perché ciò è oggetto di negoziato. Né potrebbe significare indipendenza, dal momento che sia lo Stato di Israele che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) od il futuro Stato di Palestina sono per definizione soggetti di diritto internazionale indipendenti, altrimenti non potrebbero negoziare, stipulare né tanto meno rispettare trattati come quello di pace tra loro. Per esclusione, se per sovranità qui ci si riferisce al suo terzo significato, cioè quello di potere di governo (in inglese jurisdiction) territoriale, funzionale e personale, perché mai non adottare questo termine più chiaro invece di sovranità nel testo visionario di Trump, seguendo il modello degli accordi israelo-palestinesi di Oslo?

La storica proposta di Trump in realtà include una vera e propria contraddizione in termini, come un serpente che si mangia la coda: “Gerusalemme rimarrà la capitale sovrana dello Stato di Israele, e dovrà restare una città indivisa. La capitale sovrana dello Stato di Palestina dovrà invece essere nella sezione di Gerusalemme Est localizzata in tutte le aree ad est ed a nord della barriera di sicurezza esistente, inclusa Kafr Aqab, la parte orientale di Shuafat ed Abu Dis, e può essere definita Al Quds o con un altro nome determinato dallo Stato di Palestina”. A parte il generoso suggerimento di Trump ai palestinesi sul nome (Al Quds) per la capitale del proprio futuro Stato, come potrebbe mai Gerusalemme Est rimanere parte di una città indivisa, ma allo stesso tempo essere separata da una barriera di sicurezza, e definita con un nuovo nome alternativo deliberato dallo Stato di Palestina? Certo, ci si può complimentare per l’eccellente gioco di parole elaborato dai negoziatori di Trump, ma resta il fatto che la città ha sì tre nomi distinti, ma solo perché cambia lingua utilizzata: Gerusalemme (Jerusalem) nelle lingue occidentali, Jerushalaim in ebraico, ed Al Quds in arabo. Insomma, non se ne esce: o si tiene la città unita, attraverso un nuovo Corpus Separatum o un escamotage consentito dal diritto internazionale di capitale all’estero, oppure va divisa tra la sezione occidentale e quella orientale appunto, come implicitamente confessato tra le righe nel testo, al di là delle declamazioni retoriche.

La storia deciderà se gli estensori selezionati da Trump a redigere il suo testo visionario faciliteranno la stipula di un trattato di pace tra le parti in causa di questo tragico conflitto che si protrae da oltre settant’anni. Ci si potrebbe però domandare se nel frattempo il Presidente degli Stati Uniti possa consultare anche esperti diversi capaci di suggerirgli una terminologia più chiara per i negoziati di pace, limitando così il rischio di aggiungere alle turbolenze politiche e diplomatiche una nuova guerra sulle parole.

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