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L’Europa prova a salvare l’Iran deal. Ecco perché Borrell vola a Teheran

Il capo della diplomazia europea, Josep Borrell (nella foto), domani sarà a Teheran. Lo ha annunciato il ministero degli Esteri iraniano senza dare ulteriori dettagli. Ma è chiaro che la visita nella Repubblica islamica dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue ha come argomento fulcro il Jcpoa (acronimo dell’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano deciso nel 2015 e cofirmato da Regno Unito, Francia, Germania, Stati Uniti, Russia e Cina sotto egida Ue e Onu).

Il 24 gennaio, Borrell ha convocato una riunione degli attuali stati parte dell’intesa, nel tentativo di preservare l’accordo, che si è “sgretolato” (cit. AFP) da quando gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel 2018. Tutti “hanno ribadito la loro determinazione a preservare l’accordo, che è nell’interesse di tutti”, ha detto Borrell. Però il problema è che con il ritiro, gli Stati Uniti hanno riattivato tutta la panoplia sanzionatoria e nessuno sembra in grado di poter trovare scappatoie alla situazione.

Di fatto l’accordo doveva ruotare su uno scambio: l’Iran accettava di congelare la corsa all’Atomica e otteneva in cambio dei benefici economici connessi alla eliminazione delle sanzioni e alla conseguente riapertura del commercio. Benefici che di fatto non stanno arrivando, anche a causa delle sanzioni americane extraterritoriali (con cui viene colpito in modo trasversale chi fa business con l’Iran).

Questo ha alzata il nervosismo. Perché all’interno del quadro politico iraniano le posizioni più aggressive e conservatrici hanno cercato di sfruttare l’occasione per far leva contro la linea pragmatica della presidenza Rouhani, fautrice dell’accordo. Il governo, stretto dallo spazio che i conservatori intendono crearsi, ha deciso di annunciare una serie di passi indietro dagli impegni assunti nell’ambito dell’accordo. Decisioni su cui le parti europee hanno attivato un meccanismo di denuncia a gennaio nel tentativo di sollecitare Teheran a tornare alla piena attuazione dei suoi impegni.

Nel frattempo, l’intesa, la stabilità dell’Iran e il quadro regionale, da maggio scorso sono stati messi in crisi da mosse molto aggressive con ogni probabilità spinte dalla componente più radicale dei Pasdaran (il corpo militare teocratico che in Iran funziona come uno stato nello stato). Attacchi al mondo del petrolio, azioni di sabotaggio e un confronto a ritmi via via crescenti con gli Stati Uniti. A inizio gennaio s’è addirittura sfiorato uno scontro aperto, dopo che Washington ha colpito – nel tentativo di ristabilire un quadro di deterrenza – un generale iraniano considerato un eroe e il numero due del regime. Azione che s’è portata dietro la risposta della Repubblica islamica contro basi irachene ospitanti personale occidentale.

Dopo lo scambio di colpi proibiti, la linea però è stata quella del massimo controllo – sia a Washington che a Teheran, dove la presidenza ha cercato di recuperare terreno per gestire la situazione evitando escalation. Tuttavia la crisi potrebbe non essere conclusa tra Usa e Iran. Aspetto che, sembra superfluo dirlo, ha un grosso peso anche sul Jcpoa. Quando Donald Trump ha commentato l’attacco subito per rappresaglia dopo il raid contro il generale Qassem Soleimani, mentre minimizzava i danni per evitare anche lui escalation, ha proposto all’Iran e ai partner firmatari del vecchio accordo di andare oltre e costruire qualcosa di nuovo.

Sostanzialmente gli americani contestano l’assenza di un progetto per delineare un quadro securitario regionale. Elemento che non è compreso nel Jcpoa (considerato un accordo dal valore più tecnico). Fondamentalmente è questa la ragione per cui Washington – inteso come l’intera macchina statale americana – non ha troppo contestato l’uscita trumpiana dall’accordo del 2015. L’Iran s’è diffusa in Medio Oriente attraverso partiti/milizia estremisti con un gioco di potere, studiato e gestito da Soleimani, che gli ha permesso di penetrare diversi paesi e aumentare la propria influenza. Circostanza che alleati americani e nemici iraniani come Arabia Saudita e Israele detestano, e che fondamentalmente anche da Washington viene vista come un tentativo di egemonizzare un quadrante  delicatissimo da parte di un rivale.

Ieri il capo dell’Africom, il comando del Pentagono che gestisce l’Africa, ha detto alla Commissione Servizi armati del Senato che secondo le informazioni di intelligence in suo possesso l’Iran starebbe pensando a vendicare il colpo subito con l’uccisione di Soleimani in Africa. L’intenzione è colpire le truppe americane dislocate nei vari teatri del continente. Non si prevedono azioni dirette, ma eseguite sotto il contesto della “plausible deniability” su cui sono abilissime le Quds Force (le unità per le operazioni estere dei Pasdaran, di cui Soleimani era il comandante supremo). Siamo nel campo della speculazione, ma si possono ipotizzare attacchi condotti tramite gruppi locali, guidati dalle Quds o dagli specialisti di Hezbollah, altra unità paramilitare libanese la cui ala armata è direttamente collegata con i Pasdaran.

Ieri una troupe televisiva di Sky News era a bordo di una nave militare del Bahrein che si trova nel Golfo Persico come parte di una missione marittima guidata dagli inglesi. Scopo del dispiegamento: controllare il transito su quelle rotte strategiche, dopo che lo Stretto di Hormuz – tra Emirati Arabi Uniti e Iran – la scorsa estate è diventato teatro di varie angherie da parte dei Pasdaran e di qualche gruppo controllato (attribuzione che si basa sulle ricostruzioni effettuate dalle intelligence occidentali). Il comandate della flotta di Manama ha detto che la presenza di quelle navi schierate per deterrenza e confronto con l’Iran “potrebbe essere necessaria per anni”. Nei giorni scorsi, il capo della diplomazia dell’esecutivo Rouhani ha aperto al dialogo con i paesi del Golfo per la sicurezza regionale: una mossa per scavalcare le ambizioni pericolosissime dei Pasdaran.

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