L’epidemia di Coronavirus, o, se preferite, Covid-19, inizia a farsi seriamente preoccupante. Inizialmente, sembrava che la cosa fosse sotto controllo e che il picco fosse destinato ad arrivare in tre settimane, poi le cose si sono fatte molto più serie. Il punto è che il primo caso di polmonite da Covid-19 è stato diagnosticato all’inizio della seconda settimana di dicembre e lo stesso Xi Jinping ha riconosciuto di aver assunto le prime misure il 7 gennaio, ma fino alla fine di gennaio, il governo cinese ha soppresso ogni tipo di informazione in proposito, per cui la gente non ha preso nessuna precauzione ed il virus ha iniziato a viaggiare.
Tuttavia, questa brutta storia –che speriamo finisca presto- si presta a riflessioni non marginali su cosa siano le epidemie al tempo della globalizzazione.
In primo luogo, sgombriamo il campo da una suggestione che serpeggia nel web: che il virus possa essere stato prodotto e veicolato intenzionalmente da un qualche Stato straniero per colpire la Cina. Per quanto tutto sia possibile e pazzi criminali non manchino neppure negli apparati statali, la cosa non è affatto probabile, perché l’eventuale attentatore esporrebbe anche il suo Paese al rischio del contagio ed, inoltre, anche una crisi economica conseguente colpirebbe tutti, compreso il paese aggressore. Per cui, in mancanza di qualche indizio convincente, non sembra che si possa prendere in considerazione questa ipotesi (ma riprenderemo il punto più avanti).
Più probabile (ma sino ad un certo punto), è l’ipotesi di una manipolazione di laboratorio sfuggita di mano agli stessi cinesi. E l’Huffington Post ha pubblicato un protocollo relativo alla manipolazione di virus da pipistrelli che sembra avere contatti con questo di cui ci preoccupiamo. Si sa di esperimenti del genere fatti da diversi Stati in un passato non troppo remoto, però si è sempre trattato di esperimenti condotti in laboratori con sede in località desertiche o glaciali, che qualcuno possa essere stato coì folle da fare esperimenti del genere in una città di 11 milioni di abitanti –o nei suoi dintorni- è cosa che supera la più pessimistica considerazione sulla stupidità umana. Dunque, anche questa è ipotesi scarsamente probabile da non prendere in considerazione in assenza di altri indizi.
Piuttosto, sembra ragionevole pensare che si tratti dello stesso virus della Sars che abbia subito mutazioni genetiche in questi 15 anni, magari attraverso scambi fra uomo e animale. Comunque toccherà ai virologi dirci sino a che punto sia vero.
Poniamoci una prima domanda: perché il governo cinese ha taciuto così a lungo? A quanto pare i primi casi sono stati diagnosticati nei primi di dicembre, ma questo non significa che il governo ne sia stato reso edotto immediatamente. Il regime cinese è molto autoritario, come si sa, ed ha una catena di comando lunga e complessa, lungo la quale ciascun gradino si pone il problema del se sta facendo un errore a segnalare un possibile contagio epidemico che forse non c’è e l’errore potrebbe costargli molto caro. Per cui la trasmissione dell’informazione mette molto tempo a risalire lungo la catena di comando (ecco uno dei vantaggi della democrazia rispetto alle dittature!). Ma, anche il vertice ha aspettato un bel po’ (almeno due settimane) prima di lanciare l’allarme. Il punto è che anche il Capo supremo ha da temere dovendo annunciare una notizia del genere e non solo per le reazioni popolari, ma anche per quelle della stessa nomenklatura di regime che potrebbe avvalersi anche si un antico mito, per il quale ogni dinastia regna per mandato divino e cade quando il “cielo” ritira il mandato: le epidemie sono uno dei segni precisi del ritiro del mandato. Certo, siamo nel XXI secolo e la Cina ha avuto il suo processo di secolarizzazione, ma i miti sono duri a scomparire e talvolta resistono come inconscio residuo.
Comunque sia, è evidente che Xi ha assunto delle misure nella speranza che bastassero a frenare l’epidemia (che forse non sapeva quanto già avesse messo radici) e potesse scansare una nuova Sars. E, invece, è stato peggio: quando ha deciso di passare all’azione, era già troppo tardi. Il punto è che, al di là delle intenzioni, un regime di quel tipo funziona in quel modo ed è lentissimo nell’assumere misure davanti a casi del genere.
E qui facciamo i conti con il problema del come la globalizzazione cambi i termini di una epidemia. Nella Storia ci sono stati casi di pandemie diffuse in ambiti geografici molto vasti, ma, in primo luogo, mai di dimensioni mondiali ed in secondo luogo, con tempi di diffusione molto più lenti: nel 1878 l’epidemia di colera scoppiata a Sumatra (nella quale perì Nino Bixio) arrivò in Europa sette o otto mesi dopo. Viaggiava molta meno gente e con mezzi molto più lenti di quelli di oggi. L’unica eccezione relativa (che forse converrebbe andare a studiare nuovamente) fu quella della Spagnola (anche quella una peste polmonare) fra il 1918 ed il 1919, una affezione respiratoria letale, che, però si estinse nel giro di pochi mesi per essere subito dimenticata.
Qui invece ci troviamo di fronte ad un contagio che, in poche settimane, dalla Cina ha raggiunto Hong Kong, Macao, Corea del Sud, Giappone, Vietnam, Germania, Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Singapore, Thailandia, Malesia, Taiwan, Australia, Emirati Arabi, Filippine, India, Egitto, Russia, Spagna, Belgio, Nepal, Sri Lanka, Svezia, Cambogia, Finlandia. Vero è che, con l’eccezione di Cina e Giappone, si tratta in genere di poche decine si casi o addirittura poche unità, ma questo non deve farci fare troppe illusioni: abbiamo strumenti efficaci per individuare tempestivamente gli infetti ed isolarli, ma il rischio è che al focolaio cinese se ne aggiungano altri. In parte questo è già il caso giapponese, ma il timore serio è che il contagio possa insediarsi in Africa dove le condizioni igienico-sanitarie sono decisamente disastrose e dove l’epidemia potrebbe espandersi rapidamente, anche se le popolazioni africane, mediamente, si spostano molto meno dei cinesi. E se dovessero crearsi più focolari nel mondo, ci starebbe poco da stare allegri: spento un focolaio ne nascerebbe un altro, per poi riaccendere l’epidemia anche dove era stata domata, magari anche con pochi nuovi casi. Ed il contagio potrebbe durare molto a lungo.
Che fare? Chiudere le frontiere? Ma è possibile in un mondo iper connesso? Dovremmo bloccare il turismo, le missioni militari, gli studenti all’estero, gli scambi commerciali, i lavoratori frontalieri, fermare navi ed aerei, eccetera eccetera.. È pensabile? E quando anche fosse possibile attuare queste misure, per quanto tempo sarebbero sopportabili per l’economia mondiale? Realisticamente poi alcuni giorni, al massimo qualche settimana. E se l’epidemia durasse di più?
Già ci sono i sintomi di un nuovo contagio: quello economico: alcuni settori (turismo, lusso, moda) sono già in forte difficoltà, mentre si osserva un rallentamento nel manifatturiero in generale, ma in particolare nel settore auto. E il coronavirus giunge a ricordarci che, grazie alla delocalizzazione, la Cina è il massimo produttore di auto che poi arrivano nei mercati occidentali, per cui uno stop alla produzione cinese si traduce subito in una caduta delle immatricolazioni prima di tutto in Cina (dove a febbraio il tasso di nuove immatricolazioni è caduto del 92%), ma dopo anche in Europa, anche grazie all’assenza elementi di componentistica (vi è piaciuta la “fabbrica globale”? )
Se l’emergenza dovesse durare altri 30-40 giorni (e tutto fa pensare che non duri meno), sarebbe una bella botta per la domanda aggregata mondiale (si stima intorno all’1%), un dato molto serio ma non drammatico. Ma se dovesse durare oltre, magari sino a maggio-giugno, possiamo mettere in conto sin d’ora una nuova recessione mondiale anche peggiore di quella che aprì le porte alla crisi del 2008. E, peraltro, i segnali di una crisi del genere già ci sono soprattutto in Europa, per cui poggiarci su un macigno del genere potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Anche perché, nella crisi del 2008, fu proprio la “locomotiva cinese” che risollevò la domanda aggregata mondiale poggiando sul tavolo oltre 600 miliardi di dollari di stimoli finanziari, mentre qui la Cina è il vagone morto e non più la locomotiva. Pe di più, la Cina a breve dovrà affrontare l’impatto della crescita zero demografica, per cui avrà da provvedere ad una popolazione inattiva ben più numerosa del passato.
Fermiamoci qui per un momento per constatare come si sia di fronte ad un doppio contagio: sanitario ed economico e come questo doppio contagio interagisca ed in tempi ridottissimi.
Fortunatamente siamo in presenza di un virus non eccessivamente pericoloso, con indici limitati di contagio (per quanto, nel caso lombardo, abbiamo avuto una ventina di infetti che fanno riferimento ad un solo portatore sano –peraltro negativo ai test-) e poco letale (sembra non schiodarsi al 3% di morti fra i contagiati)… sperando che l’agente patogeno non si virulenti nel passaggio da uomo a uomo.
Ma, anche lasciando perdere gli scenari più pessimistici, questa epidemia ci insegna una cosa: nel mondo della globalizzazione i vecchi argini al contagio (quarantena, chiusura delle frontiere eccetera) funzionano poco. Con masse umane di queste proporzioni che viaggiano da un estremo all’altro del mondo ogni giorno, queste misure servono a poco. Inoltre, chiudere le frontiere può servire per gli spostamenti legali, ma non certo per quelli clandestini, anzi, se la situazione dovesse protrarsi, una misura del genere potrebbe rivelarsi controproducente, perché con i flussi normali, all’aeroporto, nei porti o nelle stazioni possiamo pensare a controlli sanitari che filtrino un po’ gli arrivi, mentre con gli spostamenti clandestini non avremmo nessun controllo. Per cui, chiudere le frontiere potrebbe spingere una parte, anche piccola, dei flussi normali verso la clandestinità e, con questo, alimentare i vettori di contagio. Sconsigliabile.
E bisogna misurarsi anche con rischi sin qui sconosciuti. Ad esempio, un attacco batteriologico uno Stato non lo fa, ma un gruppo terroristico sì. Il grande contagio è anche un ottimo diversivo che tiene occupate gran parte delle forze di ciascuno Stato, una situazione molto favorevole ai traffici di un gruppo terroristico che potrebbe avere la tentazione di incrementare il disastro. Un gruppo terroristico normalmente non dispone di laboratori per manipolare batteri e virus, ma una volta che una epidemia c’è non ha difficoltà a procurarsi materiale infetto o a veicolare persone contagiate (anche se deve l’operazione non è semplice o priva di rischi). E si pensi ancora una volta al rischio di una ondata in Africa.
In un mondo così, la difesa perde: occorre andare all’attacco, ad esempio, monitorando costantemente ed in sede internazionale l’andamento batteriologico per scrutare i segnali di evoluzioni pericolose in arrivo. Occorre avere vaccini generici e medicine in grado di rallentare i contagi, per dare il tempo della ricerca di medicamenti più mirati. Si può fare e sino a che punto: tocca ai medici, ed in particolare ai virologi dircelo ed ai governi stanziare i fondi necessari ad una ricerca di queste proporzioni.