La Nato cresce, e deve assumersene le responsabilità. Mentre tramonta il suo settantesimo anno di vita, l’Alleanza ha bisogno di ripensare strategicamente il suo impegno sul fianco Sud. Mediterraneo, dunque, ma anche Nord Africa, Sahel, Medio Oriente. Questo, assieme a un altro fronte, quello tecnologico, costituisce una delle più grandi sfide dell’età adulta per l’alleanza. Da una parte terrorismo, lotte tribali, guerre per procura. Dall’altra la guerra per il dominio tecnologico, e il 5G, che in mani cinesi, ha detto il Segretario della Difesa americano Mark Esper, mette a rischio la sicurezza degli alleati. “Solo unita la Nato può uscirne indenne”, spiega a Formiche.net Alexander Vershbow, Distinguished fellow dell’Atlantic Council, già ambasciatore degli Stati Uniti in Russia e vicesegretario generale della Nato, a margine della presentazione al Centro Studi Americani del rapporto “More in the Med” realizzato dal Scowcroft Center dell’Atlantic Council in collaborazione con Leonardo.
Ambasciatore, perché la Nato ha bisogno di una strategia per il fianco Sud?
Ha bisogno di una strategia più forte di quella che ha ora. Da quando è scoppiata la crisi in Crimea nel 2014 la Nato si sta concentrando sul fianco Est. Ci sono minacce serie che provengono da Sud. Abbiamo programmi, ma non abbiamo risorse. E una strategia senza risorse si trasforma sempre in una delusione.
Cosa può fare?
La Nato non può essere l’unico attore, né dovrebbe farsi carico di tutte le operazioni antiterrorismo o della stabilità nel Mediterraneo, ma deve fare di più. Questo, per ovvie ragioni, è un compito che grava soprattutto sugli alleati al confine meridionale.
C’è unità di intenti fra alleati?
È inevitabile che gli alleati sul fianco Est siano più preoccupati della Russia e quelli a Sud di Daesh o degli Stati canaglia. La priorità per tutti gli Stati membri è convincere le opinioni pubbliche dell’utilità della Nato, mostrare che l’alleanza mantiene i suoi impegni. Per questo serve una strategia Nato per il Sud. Perché altrimenti presto i greci, gli italiani, gli spagnoli si chiederanno: cosa sta facendo la Nato per noi?
La Turchia sta dimostrando che, soprattutto nel Mediterraneo, l’Alleanza non è così unita.
Non arriveremo a una rottura, la Turchia dipende dalla Nato per la sua sicurezza. È vero che negli ultimi due anni, e soprattutto negli ultimi mesi, l’atteggiamento turco sta minando la coesione interna dell’Alleanza, e la crisi libica lo sta dimostrando.
Ha senso allora parlare oggi di un maggiore impegno della Nato a Sud?
Certo è difficile elaborare una nuova strategia per il Sud se un alleato rema nella direzione opposta, se blocca le decisioni che la Nato deve prendere, come fornire più risorse alle sue forze di addestramento in Iraq o aiutare la ricostruzione delle difese libiche all’indomani di un accordo fra le parti. È anche vero che la Nato ha superato sfide difficili in passato, penso alla crisi di Suez fra Regno Unito e Francia nel 1967 o alla guerra in Iraq nel 2003, e ne è sempre uscita.
In queste settimane si è parlato di un rinnovato ruolo per la Nato in Iraq, con un graduale spostamento della coalizione internazionale anti-Daeshs sotto l’ombrello dell’Alleanza. È una buona idea?
Finora sono stati fatti passi limitati. La scorsa settimana la ministeriale della Difesa ha accordato di cambiare bandiera ad alcune delle attività, convertendole in attività Nato. Non è sufficiente, dobbiamo investire di più in Iraq ma anche nei nostri alleati regionali, come la Giordania. Su questo in particolare i Paesi europei hanno una responsabilità, e dovrebbero aumentare il loro impegno in Medio Oriente.
Torniamo alla Libia. Cosa può fare la Nato per favorire una tregua duratura?
Non sono sicuro che ora ci sia un ruolo per la Nato in Libia. Ci sono troppi cuochi a rimestare la zuppa. Qualcuno sta con Haftar, altri con il governo di Tripoli, e l’embargo di armi è stato ampiamente ignorato. Prima di considerare qualsiasi contributo della Nato è necessario un passo indietro delle due fazioni e abbozzare una soluzione diplomatica della crisi.
Oggi il Nord Africa è nell’interesse della Nato?
Assolutamente, e in parte l’Alleanza lo dimostra già sul campo. Ha un grande programma di addestramento in Tunisia, ma anche in Marocco e nella Mauritania. La Libia è estremamente delicata, perché la crisi richiama in parte le responsabilità della Nato, che ne ha creato le condizioni dopo l’intervento del 2011.
C’è una via d’uscita?
L’unica soluzione possibile mi sembra quella di integrare tutte le milizie e forze sul campo all’interno di un rinnovato establishment militare, sottoposto a un unico Joint command sul modello occidentale, che risponda a una comune strategia per la sicurezza nazionale. Il regista non dev’essere per forza la Nato, anche l’Ue può farlo.
L’Ue ha annunciato una missione unitaria. È la direzione giusta?
Credo che gli alleati, a cominciare dall’Italia, farebbero bene a seguire Josep Borrell, che si sta dimostrando un Alto rappresentante piuttosto muscolare. In Libia non c’è bisogno di sforzi separati, ma di un’azione unitaria europea.
C’è un altro fronte, quello tecnologico, che impensierisce l’Alleanza: il 5G. Esper ha detto che affidare la rete ad aziende cinesi come Huawei o Zte significa mettere a rischio la sicurezza della Nato. Condivide?
Il monito di Esper può suonare minaccioso, ma rivela una realtà tecnica. Se la Nato affida la sua struttura delle telecomunicazioni ad aziende cinesi che sottraggono le informazioni e i dati scambiati e li usano per scopi di intelligence, siamo tutti meno sicuri. Ci sono soluzioni allo studio, come incoraggiare lo sviluppo di altri fornitori europei riuscendo così a bypassare Huawei. Spero che ci riusciremo.